Mia città di rovine. L’america di Bruce Springsteen.

di Antonella D’Amore.

Quando Gianluca Brovelli mi ha chiesto di scrivere per Badlands.it una presentazione del mio libro, Mia città di rovine. L’America di Bruce Springsteen, confesso che mi sono sentita un po’ imbarazzata: come presentare un proprio lavoro senza cadere nell’autoglorificazione?

Ho pensato che forse il modo migliore per evitare questo rischio consistesse nel cercare di “raccontare” il mio libro nel modo più semplice ed onesto possibile, cominciando dall’inizio. Si tratta, infatti, di una rielaborazione della tesi in letteratura anglo-americana con cui due anni fa mi sono laureata in lingue e letterature straniere moderne all’Università di Catania, e, dal momento che la domanda che mi sono sentita rivolgere più spesso, da quando ho deciso di realizzare quella tesi, è stata, “come mai una tesi su Bruce Springsteen”, direi di iniziare proprio da questo punto: come mai?

Ad essere sincera, l’idea mi è venuta piuttosto semplicemente: se ami molto Springsteen e se studi lingue straniere, per specializzarti in lingua e letteratura inglese ed anglo-americana, allora l’idea di applicare al tuo autore preferito gli strumenti di analisi critica che stai imparando ad usare all’università nasce abbastanza spontaneamente, tanto è vero che, prima di me, è venuta ad altre persone.

In realtà, le cose non sono così semplici, perché che Springsteen sia un “autore”, ovvero che la canzone rock possa essere equiparata ad una forma letteraria ed analizzata con gli stessi strumenti che si usano per Shakespeare o per James Joyce, è qualcosa che ancora non si può dare per scontato, soprattutto nell’ambiente accademico italiano, visto che nei paesi di lingua anglosassone operazioni del genere sono già state realizzate – mi riferisco, ad esempio, al libro Born in the U.S.A. Bruce Springsteen and the American Tradition, di Jim Cullen, professore all’Università di Harvard.

Il punto, tuttavia, è che, non solo non si può dare per scontato, ma nemmeno si DEVE dare per scontato che gli strumenti analitici che si usano per la letteratura possano essere utilizzati per la canzone rock, perché quest’ultima non è letteratura, è qualcosa di diverso, anzi, meglio, è una forma d’arte diversa, nata da processi storici ed in contesti storici e dotata di caratteristiche formali differenti rispetto alle forme letterarie. Questo punto deve essere tenuto bene in mente, altrimenti si rischia di snaturare la canzone rock, di considerarla qualcosa di diverso da ciò che essa è realmente. Ma che essa comunque sia, come ho già detto, una forma d’arte, che abbia una dignità pari a quella riconosciuta ad altre forme artistiche – la letteratura, la poesia, la musica classica – e che pertanto meriti di essere studiata ed analizzata con strumenti critici altrettanto raffinati, anche se diversi, da quelli utilizzati per quelle forme, questo è un punto che deve essere tenuto in mente altrettanto bene.

Questo, in definitiva, è ciò che io ho cercato di fare, prima nella mia tesi e poi nel mio libro, con le canzoni di Bruce Springsteen. Ho cercato di analizzarle come espressioni di una forma d’arte specifica, la canzone rock, in relazione al contesto storico, economico, sociale, politico e culturale nell’ambito del quale sono state realizzate, l’America contemporanea, ma soprattutto le ho analizzate come espressioni di un processo di presa di coscienza duplice, da parte di Springsteen: da una parte, di se stesso, della propria identità e della propria storia personale, dall’altra, dell’identità e della storia del proprio paese. Mi sono resa conto, infatti, che se per Springsteen le proprie canzoni sono sempre state uno strumento di ricerca e di definizione di sé – pensiamo a tutti i brani che ha dedicato al suo rapporto con il padre o agli album in cui ha cercato di rielaborare l’esperienza del matrimonio – è anche vero che questa ricerca e questa definizione per lui sono legate intimamente ed inscindibilmente a quelle dell’identità del proprio paese; per cui un viaggio, per usare una metafora molto cara al nostro, nelle canzoni di Bruce Springsteen, può diventare automaticamente anche un viaggio nella storia e nella realtà americana, cosa che spiega il sottotitolo del mio libro, “l’America di Bruce Springsteen”.

Gli strumenti di cui Springsteen si è servito in questo processo di presa di coscienza, di ricerca e di definizione di se stesso e del proprio paese, naturalmente, non sono quelli usati dagli storici o dai sociologi, ma quelli propri ad un artista come lui, ovvero, prima di tutto la popular music, di cui ha esplorato praticamente tutti i generi e le forme, e poi il cinema e la letteratura, che hanno influenzato sempre profondamente la sua produzione ed alla cui influenza, pertanto, ho dedicato ampia parte nel mio libro.

Un’analisi di questo tipo, naturalmente, è possibile solo sulla base di un lavoro di ricerca a dir poco mostruoso, testimoniato in parte dalla bibliografia che correda il mio libro, in cui, per motivi di spazio, ho riportato solo le opere citate esplicitamente nelle note e una piccola parte di quelle soltanto consultate. Questo lavoro di ricerca si è svolto in due direzioni: da una parte, ho dovuto ascoltare non solo, ovviamente, tutti gli album di Springsteen, ma anche tutti i bootlegs che sono riuscita a procurarmi, che spesso, soprattutto quelli contenenti registrazioni di demos e di outtakes di studio, mi sono stati utilissimi per ricostruire le fasi della composizione di un brano, e tutte le opere di altri esponenti della popular music americana che hanno influenzato, direttamente o indirettamente, le sue canzoni (nella bibliografia ho riportato solo quei bootlegs e quelle opere citati nel testo e nelle note); dall’altra, mi sono trovata nella necessità di leggere, oltre ad una quantità incredibile di libri, saggi, articoli ed interviste che si occupano di Springsteen, in maniera particolare, e di popular music, in generale, anche moltissimi testi di argomento storico, socio-culturale, letterario e cinematografico e di carattere critico e metodologico, che, probabilmente, molti lettori si saranno stupiti di trovare in un libro su Bruce Springsteen.

Questo tipo di analisi, inoltre, ha comportato da parte mia una disponibilità assoluta a mettere costantemente in discussione non solo le conoscenze e le idee su Springsteen e l’immagine di lui elaborate e diffuse dai mass-media, ma anche le mie conoscenze e le mie idee su di lui e la mia immagine personale di lui, a non dare nulla per scontato, a pormi continuamente delle domande e a cercare di dare delle risposte non affrettate e superficiali, ma che tenessero conto di tutti gli elementi possibili a mia disposizione; esso, in altre parole, mi ha costretta a prendere coscienza del fatto che Springsteen ha una personalità umana ed artistica molto più complessa, non solo dell’immagine, spesso semplicistica, che i mass-media cercano di cucirgli addosso, ma anche di quella personale con cui ognuno di noi, a volte inconsapevolmente ed involontariamente, lo identifica, salvo poi rimanere confuso o deluso quando lo Springsteen “reale” parla ed agisce in maniera diversa da come noi ci aspetteremmo.

Alla fine di questo “viaggio”, in definitiva, penso di essere diventata più consapevole rispetto a tutta una serie di questioni, riguardanti non solo Springsteen, ma tutta la realtà americana, nella sua complessità e spesso nella sua contraddittorietà, cosa che, soprattutto in quest’ultimo, tormentato periodo, mi ha aiutato a comprendere un po’ meglio, o, quanto meno, a pormi le domande giuste, riguardo a quello che sta succedendo attorno a noi e che, volenti o nolenti, ci riguarda tutti.


Mia città di rovine. L’america di Bruce Springsteen
di Antonella D’Amore
Introduzione di Alessandro Portelli
Manifestolibri, Roma, 2002
Formato: 14,5 x 21
Pagine: 260
Prezzo: Euro 15,00
ISBN: 88-7285-289-7

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