Nel giorno del Signore 18 ottobre 2002

di Alberto Calandriello.

Palamalaguti di Bologna, prima data italiana del Rising Tour di Bruce Springsteen.

Un disco atteso, sofferto, collegato ai tragici eventi dell’11 settembre e che arrivava nel momento in cui il desiderio di vedere di nuovo Bruce live era molto forte (tre anni dal Reunion Tour ed uno dal Live in New York City che lo documentava) e soprattutto nel momento in cui, almeno per me, si stava passando dall’essere fan in quasi solitudine al mondo globale di internet, dove tutti conoscono i gusti di tutti.

Certo, era una fase embrionale, dove si usavano strumenti medioevali come le e-mail, ma ricordo perfettamente come quel 18 ottobre, il pre-concerto fu indimenticabile come il concerto.

O quasi.

O quasi perché il concerto fu una roba devastante, un’intensità, una carica che travolsero i 12/13mila del Palamalagutti e soprattutto abbatterono qualunque barriera tra palco e platea, rendendo quelle tre ore una esperienza quasi mistica.

Già da come Bruce salì sul palco si capì che ci avrebbe fatto male, teso, concentrato, carico come una bomba, sparò fuori The Rising con una rabbia impressionante.

C’è da dire che quattro giorni prima ero stato a Parigi a vederlo, avevo il posto numerato ed eravamo stati un po’ in silente attesa e sacro timor davanti all’albergo per aspettarli; ricordo gli autografi di Patti, Steve e Garry, ricordo quanto cazzo mi fosse sembrato grande Clarence, ricordo il montone da “mafioso russo” (cit.) che indossava Bruce prima che lo caricassero sul van e lo portassero via.

Quindi la sera prima del concerto ci eravamo presentati davanti al Baglioni speranzosi, ma ricompensati solo da Suzi, che ci era passata di fianco, cagata da quasi nessuno.

Dopo di che decidemmo di fare onore alla cucina ed alle vigne emiliane, ci sfondammo di tagliatelle e lambrusco e tornammo in albergo tipo alle 2.

Alle 6 eravamo già in piedi; quattro ore, avevamo pagato una camera per starci quattro ore, che negli anni 50 era una tradizione, ma al giorno d’oggi, tra l’altro senza ciulare, mi sembra una minchiata.

Ma eravamo nel pieno, nell’esplosione, nell’epifania dell’età dell’acquario springsteeniana, quindi ogni cosa era giusta, se fatta in Suo nome.

Verso fine mattinata arrivò la ferale notizia che non c’era il pit.

Come non c’era il pit???

Questa invenzione americana, che a noi piaceva più della Coca Cola, dei marshmellows, delle barrette di cioccolato e delle sigarette che i soldati americani distribuivano a noi teroni a fine guerra, che avevo visto di persona, anche se dall’alto delle tribune, a Parigi, in Italia NON C’ERA?????? 

Scandalo, vergogna, rivolta!!!! 

Ma questa VERGOGNA non scalfì il nostro entusiasmo, ci muovevamo compatti, un cuore ed un’anima sola, venne fatto un primo timido tentativo di appello, senza protagonismi o manie di grandezza, cercavamo di ricordarci l’ordine in cui eravamo in fila, metti caso che uno volesse farsi una pisciata in santa pace.

Certo, qualcuno fece il furbo, mi ricordo il mio amico Komma, 100 kg di bontà, ma comunque sempre 100 kg, che si inalberò contro uno che voleva tradire lo spirito di fratellanza springsteeniano e passare avanti a tutti, mi ricordo di questo che se ne uscì bel-bello dicendo eh, ma un concerto di Bruce è come una guerra, vince il più forte; che lì per lì non ci feci tanto caso, ma un campanellino che FORSE anche tra i blooodbrothers si nascondessero delle teste di cazzo mi risuonò, ma in lontananza.

All’apertura dei cancelli, con ingressi scaglionati, riuscii a guadagnarmi una onorevole terza/quarta fila, ero rimasto anche in una foto pubblicata su Panorama. Brividoni eh?

Bene, siamo dentro, abbiamo vissuto cotanta giornata, manca solo il concerto.

Dell’ingresso e della prima canzone ho già detto, dopo Lonesome Day si sapeva che suonava canzoni diverse ogni volta, quindi it’s allright it’s allright it’s allright YEAH (su le mani!!!!!!!!!!) ma poi? E poi arrivò quella doppietta clamorosa che, dopo sole quattro canzoni, rese quello un concerto storico: Night + Something in the Night, la notte, l’esplosione di vita nella notte od il buio solitario della notte. 

Entusiasmo giovanile e disillusione, voglia di buttarsi alle spalle una giornata pesante correndo a perdifiato od alzando al massimo la radio per non pensare.

In dieci minuti scarsi, la poetica di Bruce ai massimi livelli, Born to Run e Darkness, ed io in terza/quarta fila pronto per il fotografo di Panorama.

Ampio spazio a The Rising, commozione reale per Empty Sky e You’re Missing, poi via a rotta di collo con Waiting, La migliore Waiting on a Sunny Day mai sentita da me, la prima, cantata e ballata da tutti, ripresa con entusiasmo dalla band visto che noi non smettiamo di cantare.

Un tuffo negli anni 80 con You Can Look e poi No Surrender, che abbiamo fatto un voto quella sera e crediamo davvero di volercelo ricordare per sempre.

Quella meraviglia di Worlds Apart, le difficoltà di unire mondi distanti, che esplode in Badlands, dove dobbiamo vivere ogni giorno, anche se stasera il mondo sembra molto migliore del solito.

La passione e la tensione erotica di She’s the One sfociano invece in Mary’s Place, dove la tristezza viene spazzata via anche se per poco da un giradischi ed un ballo.

Ancora il dualismo irrisolto tra la fiducia verso l’uomo e la fragilità dei rapporti personali, Countin’ on a Miracle apre la strada a Backstreets, dove si arriva ad odiare l’amico o l’amante, perché ci lascia soli.

Poi il buio e Bruce che si siede al piano, dove ci inchioda per la lunghissima For You, direttamente dall’album di esordio; il famoso pezzo acustico su cui ognuno sfogava le proprie fantasie più nascoste.

A seguire Into the Fire, quella preghiera laica a chi ci ha regalato la vita e a chi l’ha persa, quella richiesta così umana di fede, di forza, di speranza, per poter andare avanti.

E poi i bis, quella cascata di rock che ci ha dato il colpo di grazia, iniziata con Roy che si presenta da solo sul palco ed attacca un boogie alla Jerry Lee Lewis, tutti che ci guardiamo dicendo: oh cazzo, ed ora, che succede? Bruce che scherza e poi BUM parte una versione simil punk di Stand on It, perché a volte uscire ed andare ad un concerto rock ti salva davvero la vita o quanto meno ti aiuta a tenere duro.

La versione di quel tour di Dancing in the Dark era perfetta; con le tre chitarre in prima fila ed un ritmo alla Clash, così come perfetto era il teatrino di Ramrod, i balletti, whattimeisit???? e le infinite riprese.

Born to Run vede ospite Elliott Murphy, poi Land of Hope and Dreams a chiusura di un trittico dove l’amore per le proprie radici parte dall’esortazione di My City of Ruins e continua nell’urlo finalmente libero da fraintendimenti di Born in the USA.

Saluti e baci, ciao ciao con la manina, ci guardano, ci indicano si parlano e alè che si prende su le chitarre e se ne fa ancora una.

Ora, nel 2002 Thunder Road era da tempo LA canzone.

Certo, non l’avesse fatta mica me ne sarei lamentato (io non mi lamento MAI delle scalette), però quando si sono piazzati ai loro posti e Bruce ha uscito l’armonica dalla tasca, beh l’ha fatta.

E il vestito di Mary non aveva ancora iniziato a svolazzare nel portico che io ero già in lacrime, mani sulla faccia, senza una benché minima idea o cognizione di tempo e luogo, inebetito a sentire quella storia, che per cinque minuti ha, ieri come oggi, la capacità di spaccarmi in due.

E dalla città dei perdenti ce ne siamo andati tutti quella sera, mentre Clarence ci accompagnava, mentre non credo fossi l’unico a piangere, mentre tutti avevamo occhi, testa e cuore pieni, anzi stracolmi delle emozioni di quella giornata.

Così dopo gli ennesimi saluti, senza dirci nulla, tutti abbiamo pensato dai, stiamo qui ancora un po’, cerchiamo di non perdere quello che abbiamo dentro, cerchiamo di trattenere la magia che ci ha avvolti oggi, giorno del Signore 18 ottobre 2002.

Ed evidentemente non eravamo gli unici a pensarla così, perché mentre ancora cantavamo il refrain di Thunder Road Bruce è salito sul palco vuoto e ci ha aiutato a cantarlo, con il pianoforte. 

Un minuto, forse, forse meno, ma quando ha smesso, beh, dire che è venuto giù il palazzetto forse non rende nemmeno l’idea, perché nel vedere Bruce salutarci in quel modo, con inchino finale, ci ha mandato tutti letteralmente fuori di testa.

E ancora oggi mentre ne scrivo ho i brividi e il magone, ancora oggi mi sento risuonare nelle orecchie quello strano silenzio che cadde sul PalaMalaguti quando si accesero le luci e forse in molti ci domandammo se avessimo sognato o se fosse successo davvero, se fosse successo tutto quello.

Ancora oggi mi vedo mentre piango fermo tra la gente che inebetita se ne va e mi si para davanti Roberto, in lacrime come e più di me; non ci siamo detti un cazzo, che cazzo ti vuoi dire in quei momenti? Ci siamo guardati e ci siamo abbracciati per uno, forse due minuti, forse qualcun altro si è unito all’abbraccio, forse no, in quei momenti eravamo assolutamente distanti, assolutamente storditi, assolutamente felici.

E mi ricordo la telefonata a Simona, che rideva mentre io farfugliavo, che probabilmente ha capito in quei momenti di essersi scelta un rincoglionito.

E mi ricordo il tragicomico viaggio di ritorno Bologna-Albenga, subito dopo il concerto, sulla Yaris, io e Marco a fare un po’ per uno, le soste sempre più frequenti, fino a diventare un autogrill = una sosta, sigarettina, caffè, giro in tondo per svegliarci, che sulla Milano-Bologna a metà ottobre, alle 3/4 di notte c’è un freddo che ciao.

E mi ricordo di aver toccato il letto intorno alle 8 di mattina, totalmente devastato nel corpo, ma consapevole di aver vissuto qualcosa di unico ed irripetibile.

Come ripeto spesso, mai come ricordando quel giorno, sono sicuro che se fosse solo rock’n’roll sarebbe tutto più semplice, più facile, meno traumatizzante, meno commovente, meno doloroso. 

In pratica, non varrebbe un cazzo.

Spare Parts, The Rising Tour

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