Bruce Springsteen, il rock che sa ancora ‘rompere’

Una personale riflessione sui fatti di Greensboro di Valerio Bruner

Il rock. Il rock. Il rock. Un parola con cui tutti, nel bene o nel male, abbiamo avuto a che fare e di cui ci siamo riempiti la bocca, sparati la posa, “atteggiati”, come si dice in gergo. Chiodi di pelle, stivali sfondati da biker, occhiali da sole rigorosamente neri e moto rigorosamente Harley, jeans stracciati (roba che “Maestra, il cane si è mangiato i pantaloni!”), Fender “reliccate” con pickup originali del ’52 perché così il “graffio” lo senti tutto. La lista potrebbe andare avanti all’infinito. Ma sappiamo davvero di cosa parliamo quando parliamo di rock?

Dovremmo chiederlo a Muddy. Muddy è nero e vive in Mississippi, due cose che non vanno molto bene insieme, soprattutto nei primi anni del Novecento. Muddy non si chiama Muddy, si chiama McKinley, ma la nonna lo chiama Muddy e ci aggiunge anche Waters, perché al ragazzo gli piace sguazzare nel fango. Chi se ne frega, starete pensando voi? Un attimo, ci arriviamo. Muddy cresce, si spezza la schiena e si taglia le mani nei campi di cotone e sta sempre attento a non guardare l’uomo bianco negli occhi, anche se la schiavitù l’hanno abolita da un pezzo. Il problema è che un nero resta nero, nonostante leggi, decreti e abrogazioni. Muddy sa cantare, e suona anche. Troppe doti per uno come lui. Ma di cosa canta il ragazzo del fango? Canta di redenzione, di Cristo – che a onore dei bifolchi è bianco e con gli occhi cerulei – che scende giù dalla sua maison nell’alto dei cieli e viene a salvare il suo culo nero di peccatore. E funziona, caspita se funziona. Non parlo dell’Altissimo, quello chi lo capisce è bravo oppure suonato, ma della musica. Della musica di Muddy. Magia pura, o meglio, magia “nera” pura, in tutti i sensi: gli incroci polverosi nel nulla della mezzanotte, i ciechi che vedono oltre il proprio naso e i manager al profumo di zolfo dovrebbero dirci qualcosa. Comunque, non perdiamo di vista Muddy. Il nostro amico, un bel giorno, si sveglia e pensa: “Cazzo, so cantare e so suonare, ma so anche farmi ascoltare?” Le strade di Chicago non sono le campagne dove se muoio, muoio solo. Ecco allora che prende la sua chitarra e la collega a un amplificatore: le trombe dell’Apocalisse non hanno suonato così nemmeno quando aprirono l’ultimo sigillo.

Ma cosa ha fatto Muddy davvero? Si è rimediato un po’ di figa, bianca, soprattutto. Sì, anche, ma più di tutto, Muddy ha “rotto”. Non solo i timpani, o quantomeno non solo quelli. Muddy ha rotto gli schemi. Muddy ha detto: “Amici, questo è il rock.” Il rock è rottura. Pura, semplice, meravigliosa rottura. E signori, da quel giorno in poi, la lista è diventata talmente lunga che non basterebbe una vita, nemmeno quella eterna, per nominare tutti quelli che hanno rotto e che continuano a rompere: dalla duck walk di Chuck, che ha fatto ballare bianchi e neri assieme, anche dove c’era un cordone di razzismo e bigottismo a separarli, passando poi per il ciuffo pelvico di Elvis, che ha avuto il più grande pregio di liberare il corpo dandogli la sua giusta dimensione su una semplice quanto salvifica e progression; lo sguardo triste e disilluso di un ribelle senza causa che si andrà a schiantare con la sua Little Bastard sulla Statale 46, il cappello calato sugli occhi di un selvaggio centauro in mezzo a cravatte inamidate e camice stirate. Liberaci dal male. Liberaci dal bigottismo, dal perbenismo e dalla restrizione del “non fare così perché poi pensano così”.

Ed in fondo è questo quello che resta inciso sull’enorme pietra rotolante: non il brand, non il trend e non il look, quanto il grado di rottura che questi signori hanno esercitato nelle loro vite su e giù dal palco. Anche solo addormentarsi sbronzi sui binari del treno e suonare con la quarta corda scordata perché in radio tua zia ti possa riconoscere in mezzo ad altri quattro. Neal Cassady e John Lennon ne sapevano qualcosa. Sangue, sudore, lacrime: la triade perfetta del dio che prima ti “rompe” e poi ti fa “rotolare”, quello stesso dio che, tra i suoi adepti, vanta quelli che si spaccano la schiena, si forano i timpani e si rompono le ossa from nine to five.

Ed ecco che arriviamo al nostro, quello che un po’ di tempo fa qualcuno liquidò semplicemente in tre parole: muscoli, jeans e bandana. Quelli anche rompevano, ma solo le palle. La storia gli ha dato torto. Sbagliavano allora e sbagliano adesso, che di tempo ne è passato e i jeans e la bandana hanno lasciato il posto a una mise più sobria e a una consapevolezza maturata capello dopo capello. Non è questo il luogo per parlare di fiumi e di album dalla A alla Z – anche se molto ne avremmo da dire verso quelli che “No, ma ti prego The River tutte le sere no!” e che paradossalmente, qualche anno prima, esibiva pittoreschi cartelli invocando una The Ties That Bind-TO-Wreck on the Highway NO-STOP. Ma poi alla fine ci si vede tutti dalla stessa parte e va bene così: con le lacrime agli occhi e quella dannata sensazione che potrebbe essere l’ultima. Il prezzo da pagare.

Lui, Bruce – dovevo davvero scrivere il nome!? – sulla “rottura” ci ha tenuto un bel po’ di lezioni: dalle cartilagini dei gomiti e delle ginocchia ormai andate alla voce che seppure adesso stenta un po’, questo nostro caro amico appare, oggi più che mai, saldo, irremovibile e unico esempio vivente di cosa diavolo sia veramente il rock. E no, non sono i The Kolors che sorridono ebeti con il Rolling Stone appena al di sotto del ciuffo che nemmeno Little e Bobby Solo apparerebbero fondendosi. Il rock è Bruce che pochi giorni fa ti annulla un concerto perché, come lui stesso scrive in una nota ufficiale, “ci sono cose più importanti di un concerto”. Lui il concerto non lo fa, e non siamo noi a dover stabilire se è giusto o sbagliato. Quello che dobbiamo fare è prendere atto: esistono delle leggi, esistono delle restrizioni, esistono ancora delle “non tanto comprensibili” prese di posizione da parte di chi fa le leggi, ed è per questo che il rock esiste e ha ancora valore, una volta privato dei fronzoli, del glitter e delle paillettes a cui ci stanno purtroppo abituando da un po’ di tempo a questa parte.

Bruce non suonerà perché non è d’accordo con quanto hanno deciso ai piani alti di qualche palazzo governativo del North Carolina. E non si mette nemmeno in tasca il gruzzolo che il concerto di Greensboro gli avrebbe portato. Capirai, con quelli che si è fatto e si farà, non fa mica molta differenza. E invece no, la differenza la fa eccome. Altrimenti tutti quelle belle strofe di cui ci ha reso maniacalmente dipendenti sarebbero solo tante belle parole al vento. I bagni, e quello che ci accade dentro una volta chiusa la porta, non ci riguardano, non ci toccano. Quello che ci riguarda è la promessa rinnovata di essere e rimanere autentici dopo tutto questo tempo, dopo le scalette-fotocopia, le mosse e i sorrisi studiati fino allo sfinimento e i selfie sconcertanti, dopo l’era del biglietto digitale e delle corse a cavallo sorseggiando champagne on ice. Quello che resta è la visione, che non dobbiamo mai dare per scontata: il rock esiste perché deve essere scomodo, deve rompere, deve farti fare nuovi nemici e risvegliare quelli vecchi. Altrimenti è soltanto showbiz patinato di fattori x, voci e talenti morti ancor prima di nascere. Se tutto questo vi sembra astruso, eccessivo, idiota, sciocco e sentimentale, è perché siete rimasti fermi al giorno prima. Il giorno prima che Rosa Parks decidesse di sedersi al posto NON-suo. Quello, signori, è stato puro rock and roll.

Spare Parts, The River Tour 2016

Benvenuto su badlands.it

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.