Nebraska, il lato oscuro dell’America

 

di Vincenzo Pacillo.

Immaginate un uomo. Immaginate la finestra della sua stanza, un cielo plumbeo e sofferente sotto il quale persone comuni ricamano con il rosso del sangue il proprio fallimento esistenziale; fallimento dell’individuo che drammaticamente diventa anche il fallimento di una comunità. Immaginate che l’uomo nella stanza prenda la sua chitarra e decida di cantare la storia di quel fallimento, e mentre sta cantando l’immagine che filtra dai vetri della sua finestra vada a specchiarsi nel deserto della sua anima. Questo è “Nebraska”, figlio legittimo di Bruce Springsteen e della sua domanda esistenziale, fratello più grande e più sfortunato del muscoloso e acclamato “Born in the U.S.A.”, (le canzoni dei due album furono scritte quasi tutte nello stesso periodo e narrano le medesime tematiche), raccolta di canzoni intrise di silenzi, anidride carbonica e lacrime.

Concepito da un ricco ed acclamato rocker come disco “risolutamente e provocatoriamente fuori moda”, costruito su arpeggi di chitarra acustica, soffi di armonica a bocca e lampi elettrici privi di calore, “Nebraska” rappresenta uno strepitoso e drammaticamente lucido ritratto dell’America nonché l’ansia esistenziale dell’uomo che ne dipinge le trame: una domanda continua in cerca di risposte che si rinnova, di personaggio in personaggio, fino a colpire al cuore l’autore stesso.

E’ il 1981: Dio è morto, John Lennon è morto e neppure l’America si sente troppo bene. Colpita dalla recessione, umiliata da Vietnam, Watergate ed Iran, la patria del grande sogno si risveglia che è notte fonda, e l’importante non è più vivere per correre, ma correre per sopravvivere. Chi ha voglia di parlarne? Non sarà per caso quel tipo che corre su un palco come un matto per quattro ore, investe la gente con la sua tempesta di sano ed autentico rock’n’roll ed invita le sue Rosalita a fuggire con lui su Cadillac in piccoli caffè dove suonano la chitarra giorno e notte? Ebbene sì, è proprio lui ad iniziare il discorso. E lo fa dimenticando a casa la sua Telecaster, lo sfolgorio dei colori delle sue straordinarie sonorità; scrive un pugno di canzoni folk, attinge a piene mani dalle lezioni di Woody Guthrie e Hank Williams, e ci presenta un disco sporco e disadorno, dai toni soffusi e dalle immagini scarne ed offuscate, che rappresenta una splendida foto in bianco e nero del fallimento dell’American Dream. Nulla di cronachistico o distaccato però. Il territorio umano raccontato da Springsteen è anche – e soprattutto – autobiografia di un momento di crisi profonda, di un conflitto mai risolto con il passato e della paura di andare incontro al futuro.

Il disco ha – in un primo nucleo di canzoni – un tema dominante. C’è un uomo – spesso in un’auto – che sta disperatamente tentando di sopravvivere al vuoto che lo circonda.

In Nebraska quest’uomo è Charles Starkweather, il quale ci racconta che per sopravvivere ha messo la sua ragazza su un auto ed ha ucciso dieci persone: il suo racconto è lucido, pacato, razionale, accompagnato da una melodia elegiaca che rende l’impatto emotivo assolutamente agghiacciante. Interviene poi un uomo di Atlantic City, il quale ci racconta dei suoi debiti impossibili da saldare, delle suoi piccoli crimini per restare a galla e dell’appuntamento con la sua donna, unica fonte di calore in una notte che sta diventando fredda. Tocca al narratore raccontare la storia di Johnny 99, ex operaio licenziato che una notte si ubriaca, uccide un poliziotto e perciò viene condannato a 99 anni di prigione. Anche Johnny non poteva pagare i suoi debiti, la banca aveva un’ipoteca sulla casa; tutto scivola via per lui, e così chiede al giudice di essere giustiziato.

Non meno drammatica è la storia che racconta Joe Roberts, un Highway Patrolman diviso tra l’amore per il fratello Frankie – uno scapestrato con tendenze criminali – ed il rispetto per l’onestà ed il proprio lavoro. Quando Frankie commetterà un omicidio, sarà proprio Joe a doverlo rincorrere; alla fine lo lascerà scappare oltre il confine. La splendida storia ispirerà a Sean Penn il film “Lupo solitario”.

Due canzoni, più di tutte, sintetizzano il tema del primo nucleo del disco: State Trooper e Open All Night. In entrambe due viaggiatori solitari corrono per le autostrade nelle prime ore del mattino, accompagnati dal gracchiante suono della radio. Nel primo brano – due accordi in croce martellati e spettrali – il protagonista sta andando alla deriva verso il nulla, nel secondo – elettrico e vibrante – l’uomo al volante ha teoricamente una meta, ma ugualmente prega qualcuno di salvarlo dal vuoto della sua vita.

In un secondo nucleo del disco Springsteen prende il coraggio a due mani e parla direttamente di sè, di come il fallimento dell’America sia anche un paesaggio della sua anima.

In Mansion on the Hill e My Father’s House c’è il racconto di come l’uomo non riesca a mettere radici; inseguito dai fantasmi, in fuga disperata dal passato, vede il simbolo del legame familiare (la casa) come una presenza lontana ed irraggiungibile, un sogno offuscato in cui il rifugio è lontano ed i peccati non sono ancora stati espiati. Used Cars invece racconta, dolce come un pugno nello stomaco, le frustrazioni dell’adolescente costretto a sfilare per il quartiere sull’auto usata appena comprata dal padre. Nel brano c’è tutta l’umiliazione ed il rancore di Springsteen per il suo passato, un passato che come un incubo torna nel presente dell’America proletaria ed affaticata in cerca di una soddisfazione effimera rappresentata da un ammasso di ferraglie.

Chiude il disco la sincopata ed ossessiva Reason to Believe, un compendio di immagini grottesche e surreali non più solo americane, ma drammaticamente universali. Un uomo che sul ciglio della strada cerca di resuscitare un cane morto, un altro abbandonato dalla fidanzata il giorno del matrimonio, un funerale. Malgrado tutto, dice Bruce, la gente trova ancora una ragione per credere. Ed ecco la domanda: qual è questa ragione? Che cosa ci fa tirare avanti? Per Bruce la risposta arriverà solo due lustri dopo, con Living Proof: è l’amore, la famiglia, i legami. Per ciascuno di noi la risposta è ancora forse da dare, nel faticoso percorso autostradale della vita.

Disco puro, onesto ed agghiacciante, formidabile nella sua semplicità, Nebraska ha un fascino irripetibile. Lo stesso The Ghost of Tom Joad, che ne condivide temi e sonorità, non riesce a condividerne la essenzialità cristallina. E’ innegabile che gran parte di ciò sia da attribuirsi al fatto che Nebraska era stato concepito come una serie di demo e che pertanto fu registrato in casa, senza l’ausilio delle tecniche proprie della sala di incisione. E così l’armonica a bocca ha un suono impressionante, sporco e sinistro come l’ululato delle sirene nelle fabbriche, il cantato esce in bilico tra il sussurro ed il colpo di tosse, la chitarra sembra velata da una patina di polvere. Forse ha ragione Ermanno Labianca: di Nebraska si parlerà, tra trent’anni.

Discography

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