Born To Run, oggi

di Dario Greco.

“Volevo fare un disco che avesse le parole di Bob Dylan e la musica di Phil Spector. Ciò che desideravo maggiormente però era cantare come Roy Orbison.” Così Bruce Springsteen commenta le intenzioni del suo terzo disco, il primo vero successo commerciale della sua lunga carriera. Fin dalle sue prime note di Thunder Road l’album conquista l’ascoltatore, per merito di storie accompagnate da melodie accattivanti. La chiave tematica del lavoro sta tutta nella prima traccia, dove il protagonista propone alla propria partner di scappare da una vita vuota e povera di speranza. Le parole di Born To Run, che raramente si possono accostare a quelle di Dylan, rappresentano la ricerca del loro destino. In Born To Run il protagonista chiede se l’amore di lei è selvaggio, ma soprattutto se è vero. Tuttavia alla fine della corsa permane il senso di speranza, di poter un giorno camminare nel sole, nonostante la propria natura sia più adatto a correre per riscattare la propria vita.

E’ questo il fulcro della poetica springsteeniana di questo periodo. Un po’ di innocenza e di speranze, la ricerca lenitiva di redenzione, essere pronti alla battaglia, a tutti i costi. Il territorio dove si muovono i suoi protagonisti è saturo di trappole: ci sarà da combattere per avere il proprio posto nel mondo. Springsteen è un cantore onesto, ma coraggioso, che ci fa vedere sangue, sudore, lacrime e qualche sorriso. Soprattutto ci fa vedere molte immagini degne di una bella pellicola hollywoodiana, a tutta velocità. La musica che lo accompagna è grandiosa e carica di enfasi e pathos. Sono piccole storie, forse, ma l’architettura con cui le ascoltiamo hanno il respiro grandioso della migliore epica. Questo non a caso sarà il primo passo per il successo mondiale, con una manciata di brani che sono rimasti nell’immaginario collettivo e che hanno fotografato un giovane autore nel momento della sua esplosione creativa. I testi sono racconti gagliardi e ricchi di sfumature, al pari della musica che li accompagna. Le immagini che ci restano addosso sono frammenti di sogno e di verismo, sapientemente miscelati come un carburante speciale per superare le catene del vivere quotidiano.

Bruce Springsteen come autore e come esecutore vince la sua gara più difficile ed è pronto per entrare nel Pantheon del Rock. Da lì in avanti avrà la strada spianata per il successo che a dirla tutta, avrebbe meritato fin dal primo momento, visto che anche i suoi precedenti lavori erano costituiti da brani interessanti e validi. Purtroppo in quegli anni l’attenzione della critica e del pubblico erano orientati su altri messaggi, suoni e atmosfere. Oggi però riascoltare soprattutto il lato B del suo secondo disco è una emozione senza termini di paragoni, proprio come l’intero Born To Run; capolavoro voluto e cercato, nei temi, nelle atmosfere e nella voce di chi ha cantato davvero come se potesse eguagliare (forse senza riuscirsi) il grande Roy Orbison, il mito di Elvis Presley e tutto l’empireo del rock and roll classico. 

Oggi a distanza di tempo sappiamo bene che Springsteen è parte integrante di questo discorso, della tradizione e di ciò che è stato probabilmente il futuro del rock and roll, al pari di altri artisti come Bob Seger, John Mellencamp e Tom Petty.

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