Le mie impressioni sull’autobiografia

di Alberto Calandriello.

91ZUAc2iGpLaDopo quintali e quintali di libri sul tema, non tutti (per usare un eufemismo) necessari, mister Springsteen decide finalmente di raccontare la sua versione dei fatti.

La vita di Bruce è ovviamente argomento di massimo interesse per chi come me dentro alla sua produzione musicale ci ha vissuto centinaia forse migliaia di vite diverse, di amori, avventure, successi, delusioni consolate e quant’altro sia possibile vivere dentro a delle canzoni talmente radicate nel tuo cuore da essere davvero parte di te stesso.

Bono Vox, quando nel 1999 introdusse Bruce nella Rock and Roll Hall of Fame, disse che non c’era bisogno di leggere nel gossip per avere informazioni piccanti su Springsteen, perché la sua vita era dentro le sue canzoni; pur smentendo parzialmente questa affermazione, dicendo che la vita e l’arte sono due cose ben distinte, Bruce però dà ragione all’amico irlandese, in quanto in queste righe ci racconta molte cose che avevamo già intuito nei suoi album.

Il primo punto da affrontare, a mio avviso sta nella volontà dell’autore di smontare molta della epicità che i suoi brani, in special modo quelli più carichi di enfasi, trasmettono tuttora. Il racconto, soprattutto dei primi anni, ha la sua forza nella assoluta normalità, tendente alla sfiga, della vita degli Springsteen. Bruce è una persona che riconoscerà presto di avere un talento e saprà farlo fruttare, ma passando prima attraverso periodi di crescita, sofferenza e dolore che ne forgeranno il carattere e gli saranno di continua ispirazione per tutta la carriera.

Della giovinezza si capisce principalmente la convinzione e la passione con cui si ostinò a raggiungere quel traguardo, che forse inizialmente non aveva nemmeno ben chiaro, grazie alla sua creatività ed al suo talento. La fatica con cui la sua famiglia sbarcava il lunario segnò profondamente l’immaginario con il quale creare i personaggi che da subito popolavano le sue canzoni, personaggi veri, umani e soprattutto credibili; credibilità che affonda le sue radici, anche oggi dall’alto del suo conto in banca, dall’aver sentito davvero vicino quell’umanità disperata di cui canta da 40 anni.

Basti pensare a Factory, la canzone perfetta per rappresentare la classe operaia, così piena della vita del padre.

Da un punto di vista “musicale”, a prescindere dall’apprezzamento che si può avere verso la sua discografia, questo è un libro da leggere e memorizzare come si fa con i manuali di istruzioni, una sorta di tutorial dove Bruce, novello Aranzulla, raccontando la sua carriera spiega cosa voglia dire davvero combattere per raggiungere un traguardo, senza perderlo mai di vista.

Si dà molta importanza a questo aspetto nel libro, passando sopra spesso ai rapporti familiari, di cui Bruce racconterà molto, ma sempre con pudore e discrezione e soprattutto lasciando inevitabilmente trasparire la sofferenza provata a causa dei problemi del padre, la mancanza del suo amore e l’attaccamento fortissimo alla madre.

Pudore e dignità, una grande signorilità che appare chiara in diversi passaggi del libro, soprattutto in quelli più delicati, come la causa con Appel ed il divorzio; nel primo caso Bruce non nega i torti subiti, ma riesce comunque a far emergere gli aspetti positivi del ruolo del suo primo manager, senza per questo nascondere il dolore che gli causò. Nei confronti di Julianne Philips invece colpisce la delicatezza con cui si addossa interamente le colpe del fallimento, ancora prima del tradimento, per via dei retaggi infantili che gli facevano, parole sue, aver paura di essere amato.

Viene da sé che dal libro emerga fortissima l’importanza nella sua vita della moglie Patti, persona presente da moltissimo tempo nella sua vita e che qui esce fuori come vera “padrona di casa”, capace di accettare ed aiutare Bruce nelle sue versioni peggiori.

Trovo molto più interessante leggere del sostegno reciproco che i due si sono dati e si danno tuttora, piuttosto che ipotizzare nuove relazioni e scappatelle da tour.
Patti ha sempre dimostrato di meritarsi un posto su quel palco e in questo libro il merito ovviamente viene confermato ed aumentato.

Anche nel menàge familiare colpisce la capacità di Bruce di raccontare la sua vita in modo normale, senza falsa modestia, senza nascondere i privilegi di cui gode, ma senza che questi diventino argomenti eccessivamente interessanti.

La musica, la musica, ecco cosa interessa, la musica!!

Il racconto della domenica sera in cui Elvis si esibì all’Ed Sullivan Show, intriso di quell’enfasi che altrove è smorzata, con quel senso di unicità che rende benissimo l’idea di cosa possa essere stato, per gli americani, quella prima volta.

Andatevelo a leggere, poi cercate la parte della biografia di Keith Richards in cui racconta della prima volta in cui ascoltò Heartbreak Hotel, poi ditemi se non vi viene voglia di metter su un disco a tutto volume o, ancora meglio, fondare una rock band.

Andare via dalla città dei perdenti per vincere! Anche se lo cantò solo al terzo disco, è chiaro che fosse questo l’obbiettivo di Bruce sin dal primo momento in cui iniziò ad interessarsi di musica! La vita da solo, i viaggi in California in cerca di successo, i tentativi, le delusioni, la determinazione. Tutto contribuì a chiarire in lui dove voler arrivare e come, trovando nella ESB il gruppo ideale.

Gruppo ideale che viene descritto con franchezza, giù dal palco non è il caso di offrire presentazioni pompose, di parlare di fantasmi, padrini, uomini mitici, perché quello lo possiamo trovare dappertutto, nei loro live; la bellezza di queste pagine sta proprio nel non nascondere che dietro a THE E STREET BAAAAAAAAAAAAAAAAND ci sono persone che hanno litigato, si sono offese, hanno portato rancore, ma che nonostante questo, sopra un palco hanno scritto pagine indelebili del rock and roll.

Certo, la dolcezza con cui racconta dei casini che combinò Danny, dei suoi problemi con dipendenze varie, parla di un profondo affetto, quello che si riserva alle persone importanti nella propria vita.

Il racconto dell’ultima serata passata a suonare assieme, con Danny che chiede di imbracciare la fisarmonica ad Indianapolis e portare per l’ultima volta (e sapevano tutti che era l’ultima volta) tutti sulle spiagge di Asbury Park è un colpo duro e commuove; in questi frangenti, appare evidente la bravura di Bruce come narratore, perchè è incredibile il modo in cui riesca a farti sentire vicino a loro, sotto a quel palco.

La parte dedicata alla morte di Clarence, se possibile, è ancora più dura; mi sono ritrovato a singhiozzare mentre leggevo delle ultime ore di vita del Big Man, non tanto per via degli episodi, più o meno conosciuti, ma per quel senso di smarrimento che ancora oggi attanaglia Bruce nel non averlo più accanto. La nuotata nell’oceano che Bruce fa dopo la morte di C, per come la racconta, vale un paio di singoli da classifica.

Altrettanto si dica per il percorso che portò Jake ad entrare nella band; in quelle righe ritrovo la mia stessa sofferenza e successiva difficoltà nell’accettarlo, ricordo perfettamente cosa provai a San Siro nel 2012 e di come solo pochi giorni dopo, a Firenze, capii qualcosa che ho poi ritrovato nelle pagine di questo libro.

La parte più dolorosa e spiazzante è ovviamente quella dedicata alla sua depressione, alla fatica di scendere dal palco e vivere normalmente, alla paura di essere amato e contemporaneamente a quella di non riuscire a contraccambiare. Colpisce il modo in cui senza timore Bruce smonti la sua immagine pubblica, non solo quella “con la bandana” ma anche quella più recente, per raccontarci un’altra verità, fatta di medici, medicine, silenzi, fughe, assenze. Emoziona anche il modo in cui ci spiega come sua moglie gli abbia insegnato a diventare un padre migliore e come contemporaneamente sia riuscito ad essere anche un figlio più completo.

La nascita dei figli, specialmente del primo è nuovamente un punto da brividi, grazie alla sua capacità di trasmetterti la più piccola scossa emotiva. Living Proof.

La scrittura, punto forte del suo successo, qui è molto intima ed accogliente, ci fa entrare dentro una casa della quale non ci mostra tutto, ma comunque molto, dove vengono visitate di sfuggita le sale dei trofei e ci si sofferma di più in quelle delle emozioni, del lavoro, dei sogni.

Una delle chiavi del successo di Springsteen, sta anche in quello che emerge, verso la fine, dal suo recente incontro con gli Stones. Il capitolo dedicato alle prove in una saletta scarna ed essenziale è il manifesto di un vero prigioniero del rock and roll, che ancora oggi, dopo una carriera simile, si emoziona per un duetto e, soprattutto, per quella alchimia magica che il rock riesce a creare in situazioni minime come appunto la saletta dove provò Tumbling Dice.

Altrettanto emozionante è l’umiltà con cui si mette sempre un passo indietro rispetto ai suoi eroi, gli Stones appunto, Elvis, gli Who, tutti i gruppi visti, ascoltati e sognati da ragazzo.

Loro sono i geni, lui si definisce uno che lavora duro; ovviamente sono troppo partigiano per essere d’accordo con questa frase, ma credo che anche questo atteggiamento sia uno dei motivi che lo hanno portato dove è arrivato; serietà, caparbietà, tenacia, una capacità di scrittura che ha pochi eguali.

Proprio lui disse che Elvis liberò il corpo e Bob Dylan la mente, proprio lui che al primo ascolto di Like a Rolling Stone sobbalzò come avesse già capito tutto, in un lampo, proprio lui, a mio avviso è uno dei pochi che, pur non avendo inventato nulla, è riuscito a creare una musica che liberasse SIA il corpo CHE la mente, contemporaneamente.

Non so quanti capitoli restino da scrivere a questa storia, però un libro del genere, come ho detto all’inizio, andrebbe preso ad esempio per tutti quelli che oggi cercano di farsi strada nel mondo della musica; andrebbe studiato, bisognerebbe confrontarsi con questo percorso e verificare con queste righe dove si sta cercando di andare.

Un romanzo americano, che grazie al filo conduttore del rock racconta una storia più grande, che ci coinvolge anche se siamo lontani, che parla di noi anche se non ci conosciamo, come capita spessissimo nelle sue canzoni.

Un grande regalo, l’ennesimo, da parte di una figura unica e temo irripetibile.

So Mary, climb in.

Book

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