Il Rock vince la morte (Da Harlem a Gotheburg)

di Alberto Calandriello

Apollo Theatre, Harlem, 9 marzo scorso, data zero del nuovo tour di Bruce Springsteen and The E Street Band. Anno uno della E Street Band dalla morte di Clarence Clemons, ci si chiede se e come verrà ricordato Big Man sul palco.

Due i momenti in cui le illustri assenze della band verranno sottolineate sul mitico palco dell’Apollo: durante My City of Ruins e, come facilmente pronosticabile, durante 10th Avenue Freeze-out, col suo richiamo a quando Big Man “joined the band”. Momenti che verranno mantenuti lungo tutti i concerti che seguiranno, fino a quello di Helsinki che ha chiuso il tour europeo.

Esiste a mio avviso un lungo filo rosso che collega il concerto dell’Apollo al momento in cui le note di Jungleland sono risuonate nello stadio Ullevi di Gotheburg il 28 luglio. Un cerchio che si chiude, un lungo cammino che manda un messaggio forte e chiaro: il rock’n’roll vince la morte.

La morte che tante volte ha spezzato vite di artisti che potevano scrivere ancora pagine memorabili, perde il suo confronto contro la E Street Band. Ma non si tratta di patti diabolici, quelli per fortuna li ha fatti Keith Richards, che Dio o Satana lo conservino sempre in forze.

La E Street Band ha dimostrato di andare oltre alla fine della vita di due colonne portanti come Danny Federici e Clarence Clemons, Bruce ha dimostrato di portare avanti un messaggio di forza, positività e speranza nonostante la perdita di due quarantennali compagni e della sua fidata guardia del corpo.

Se voi siete qui e se noi siamo qui, loro sono qui.

Ecco il primo accenno di Bruce alle assenze, quella sera ad Harlem. La loro musica, la NOSTRA musica è qui con noi, nessuno ce la può portare via e noi insieme faremo in modo di sentirli ancora con noi, i nostri cari estinti.

My City of Ruins, pezzo drammatico, ma che contiene quel COME ON RISE UP così forte nel suo scuoterci e nel suo invitarci alla reazione, alla battaglia contro chi ci vuole piegati. Mai prima d’ora un pezzo così era stato scelto per introdurre la band, di solito toccava a vere maratone rock: Rosalita, Born to be Wild, Light of Day, la stessa 10th Avenue.

Ma questo è un tour diverso, che ha una missione diversa, dimostrare che nonostante tutto, ci siamo, siamo qui, siamo ancora vivi, We are Alive (come dice il brano che chiude il nuovo album). E quindi RISE UP e quindi stiamo insieme, e quindi POSSO SENTIRLI NELLE VOSTRE VOCI.

Siamo vivi ed alla vita ci aggrappiamo per sopravvivere, siamo vivi e lo dimostriamo suonando, presentandoci a voi feriti, ma positivi, addolorati ma ottimisti, speranzosi, COME ON RISE UP. Siamo vivi e abbiamo metabolizzato la morte, ci abbiamo guardato dentro, l’abbiamo sentita vicina, ma abbiamo rivolto il nostro sguardo oltre. Non piangiamo perché è finito (perché non è finito), ma sorridiamo perché è successo (e succederà ancora). COME ON RISE UP.

Una canzone sulle cose che ci lasciano e su quelle che restano con noi per sempre, COME ON RISE UP!

In questo percorso, ancora da concludersi, emerge una forte volontà di affermazione e di affrancamento dalla morte, dal tempo, dal dolore. Il ragazzo che non poteva sopportare se stesso se non con una chitarra a tracolla, ora sa che a lui 60enne si aggrappano, spesso disperatamente, le persone che lo seguono e lo amano. Per questo la catarsi di Born to Run, ad esempio, ritrova splendore e significato, perché quel WE’LL WALK IN THE SUN oggi, nel 2012, non è più incoscienza giovanile, non è più voglia di fuga, i vagabondi restano tali, ma anche perché non trovano altre coordinate nella vita che certe canzoni.

Ed allora dai, 30\40\60mila mani alzate SOMEDAY GIRL I DON’T KNOW WHEN c’è una vita li dentro, una vita che chiede ancora oggi di essere vissuta a fondo, di essere degna di chiamarsi tale.

Dal particolare all’universale, la crisi economica, la disoccupazione, le generazioni sconfitte, ma anche la perdita degli affetti, degli amici, della gioia. I protagonisti di Shackled and Drawn, di Death to My Hometown, urlano la loro rabbia, Jack of all Trades è piegato ma ripete che we’ll be allright.

E in concerto, come al solito, Bruce fa in modo che chiunque possa rinascere, possa buttare fuori dalla porta la negatività ed uscire dallo stadio con più forza ed ottimismo. Si nasce, si vive, si muore e si rinasce in suo concerto. Dimenticarsi di oggi fino a domani, diceva Bob Dylan, ma Bruce invece in concerto ci fa pensare al domani, ci fa resistere al domani, ce lo fa affrontare con più grinta e ottimismo.

E la palla demolitrice che da il titolo all’album ci chiede di costruire, di costruire su macerie magari, come diceva Guccini, ma comunque costruire: se hai il fegato e se hai i coglioni, fatti avanti amico; qui le cose non sono facili, ma se c’è da combattere, bruce lo dice da anni, non ci si tira indietro.

E poi, Jungleland.

Jungleland è LA canzone di Clarence, più di 10th Avenue, più di tutte le (tante) dove ha lasciato la sua formidabile impronta, lasciando che il suo sax CANTASSE le parti che le parole non possono raccontare.

Jungleland è stata la canzone che ho voluto ascoltare per prima, dopo la sua morte, quasi per rassicurarmi che ci fosse ancora, lei e quel capolavoro di assolo di sax che vale una carriera al suo interno. Quei tre-quattro minuti in cui la storia di Magic Rat resta sospesa, facendoti solo intuire cosa gli sta accadendo.

Ritiriamola, come la maglia dei calciatori. Non ricordo chi lo disse, ma io concordai subito.

Mai più su QUEL palco, mai più, nessuno deve suonarla insieme a Bruce, mai più.

Ma questo tour ha dimostrato invece che l’idea di Bruce era tutt’altro. Clarence non lascia la band quando muore, la lascia quando NOI moriamo. Finche ci sarà la E Street Band, Big Man ne farà parte.

E lo strumento, il modo scelto per dimostrarlo è stato Jake Clemons. Sassofonista mediocre che io da sempre (e continuo tuttora) ritengo non all’altezza di certi palchi (ma nemmeno di palchi minori dove prima della morte dello zio è stato accolto come un mito), ma appiglio di Bruce per allontanare, per sconfiggere la morte, la morte di Clarence.

Jake è stato aggregato al gruppo con il chiaro intento NON di sostituire, ma di dare una continuità, magari non musicale, magari non solo, sicuramente di tipo affettivo. Non a caso poco prima dell’inizio del tour sul sito ufficiale sono apparsi PRIMA i nomi della E Street Band, poi tutti i nuovi innesti, Jake compreso.

La chiave di volta del mio rifiuto verso Jake è stato un indefinito momento del concerto di Firenze, durante un suo assolo, quando hanno inquadrato lui e bruce, vicini e ho scorto nello sguardo di Bruce verso di lui un sentimento di gioia, di consolazione, di gratitudine, perché con lui vicino, forse (al di là, lo dico senza polemica, delle doti tecniche) fa meno male quel buco sul palco.

Nella prima delle due date di Gotheburg Bruce ha suonato Drive All Night, ennesimo pezzo impreziosito da un solo di sax che da veramente un senso alla strofa “shivers down my spine”. Mentre Jake eseguiva quel solo, Bruce continuava ad indicare lui ed il cielo; in quel momento ho pensato che probabilmente anche l’ultimo “tabù”, cioè Jungleland, stava per cadere.

Si era pronti per riproporre su quel palco il pezzo che più di tutti sottolineava la gravità dell’assenza, il pezzo che più di tutti era identificato con chi non era più su quel palco. Si era pronti perché la banda aveva vinto, era andata oltre e con sé aveva portato i fans che ogni sera, al minuto di casino in onore di Big Man, urlavano forte per farsi sentire, per far sentire il proprio affetto.

In un tour che sottolineava le durezze della società attuale, Bruce è riuscito comunque a far emergere il suo messaggio di positività: noi non molliamo, noi andiamo avanti, perché se andiamo avanti noi, riusciamo a portarci insieme quelli che ci hanno lasciato, riusciamo a mantenere intatta la bellezza, l’importanza del lavoro che abbiamo costruito in questi anni, testimoniamo che non lasciamo nessuno indietro, nessuno dei personaggi che da 40 anni popolano le sue canzoni può lamentarsi di essere stato abbandonato, nessuno del pubblico può negare di essersi sentito trascinato dalla forza di un uomo che a 62 anni canta 4 ore e riempie 4 ore parlando di terra promessa, di speranza, sogni, di gente che corre verso un qualcosa di giusto, vero e meritato, che combatte chi ha portato la morte nella sua città, che ancora, dopo anni, dopo tutto, resta spalla a spalla e cuore a cuore.

Ed allora diamo il bentornato ai rangers, che si tornino ad incontrare ad Harlem, lasciamo che la gigantesca insegna della Exxon si riaccenda stasera, lasciamo che cada la soffice pioggia estiva e che bagni Magic Rat e la ragazza scalza, lasciamo che i tormentati esplodano in gruppi rock. Sta cazzo di pioggia che ha contrassegnato numerosi concerti europei laverà via il nostro dolore e ci farà capire che abbiamo vinto, abbiamo dato un calcio in culo alla morte, che voleva la banda finita, che voleva il sax muto, la fisarmonica appoggiata in un angolo, che voleva la storia conclusa.

Nella serata all’Apollo, alla fine di 10th Avenue la banda attacca Hold on, I’m Coming e Bruce dice i nomi delle città americane dove suoneranno, tenete duro, stiamo arrivando: Atlanta, Chicago, New York, stiamo arrivando.

E come ogni volta, Bruce arriva e vince, contro chiunque.

E non importa se i poeti non scrivono di certe cose, quelle note del sax ci aiuteranno.

E ci consolerà il sentirci forse più vecchi, forse più deboli, ma vivi e sicuramente meno soli.

Wrecking Ball Tour

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