Le scale esterne del Forum.
Due alla volta.
Di corsa.
Uno sprint mai fatto prima, mai più ripetuto ed ormai irripetibile, data l’età. Perché in cima a quelle scale poi si arrivava in un punto dove scendevi tutte le scale interne ed arrivavi, finalmente, sul campo riconvertito in parterre.
Assago, periferia di Milano, 20 aprile 1999.
22 anni fa, per la prima volta, assistevo ad un concerto di Bruce Springsteen & the E Street Band.
Nel 1996 lo avevo visto, acustico, intimo e intenso, al Teatro Carlo Felice di Genova, ma il concerto con LA Band era un appuntamento che attendevo da anni.
Bruce Springsteen, che per comodità mia e soprattutto vostra, definirò “il mio cantante preferito”, che se provassi a spiegare bene cosa rappresenta per me da 30 anni non ne usciremmo vivi, è entrato nella mia vita, come in quella di molti miei coetanei, con Born In The USA, quell’album stra-venduto che lo impose come mito ed icona del rock anni 80, tralasciando quanto di (molto) buono fatto prima.
Tra bandane e bicipiti sviluppati, Bruce fece capolino nelle mie giornate quando lessi il suo nome sulla Gazzetta dello Sport, all’epoca il mio unico quotidiano di riferimento. Era il periodo del concerto a San Siro, quando tutti scoprirono il rocker americano e affollarono lo stadio milanese in ottantamila.
Ma torniamo al Forum.
Non appena riprese fiato, non tanto per la corsa, ma per le risate fatte vedendomi scattare come un atleta, il fido amico Andrea mi indicò il punto in cui poterci godere lo show da vicino. Nel paio d’ore che precedettero l’inizio, mi trovai a pensare a quello che volesse dire Bruce nella mia esistenza ed oggi, più di 20 anni dopo, spesso mi capita di farlo ancora.
La sua musica, le sue parole, la sua capacità di raccontare storie, dar vita e nomi a persone prima ancora che personaggi, la sua enorme empatia riversata nei testi hanno accompagnato e dato “nobiltà artistica” a molti momenti della mia vita.
Essendo io un ascoltatore compulsivo e maniacale, le sue canzoni da sempre non hanno rappresentato solo una colonna sonora o tanto meno un sottofondo, ma si sono rivelate vere e proprie stanze dentro le quali trovare rifugio, consolazione, divertimento, ispirazione.
Facile quindi immaginare il mio stato d’animo quando le luci del Forum si spensero e alla spicciolata entrarono sul palco i membri della E Street Band; no, non erano solo musicisti, erano eroi, amici, co-protagonisti delle avventure che con Bruce e grazie a Bruce io vivevo ogni volta che le cuffie rendevano la sua musica l’unico suono udibile, ogni volta che la mia quotidianità rendeva la sua musica l’unico suono sopportabile.
C’erano tutti quella sera, Max, Gary, Danny, Roy, Patti, Nils & Steve (tutti e due nonostante nel 1984 Steve se ne fosse andato).
Clarence, Dio ti benedica Clarence, un boato secondo solo a quello per Bruce, quando la sua enorme figura venne illuminata dai riflettori; il Big Man, la spalla su cui appoggiarsi, il rifugio dove nascondersi, l’amico da cui farsi proteggere, lui e il suo gigantesco sax dorato arrivarono sul palco e mi resi conto che si, stava davvero per succedere, ero davvero ad un concerto di BRUCE SPRINGSTEEN & THE E STREET BAND.
Arrivò chiaramente anche Bruce, camicia arrotolata e chitarra a tracolla, come milioni di volte lo avevo immaginato e sognato, un tutt’uno, lui e la chitarra, pronti a farci saltare in aria.
Furono 3 ore durante le quali la musica mi attraversò completamente, corpo e anima, mettendo in scena davanti a me non solo il più grande concerto di rock al mondo, ma soprattutto le ore passate ad ascoltare i suoi dischi, i suoi concerti, i suoi bootleg da solo, in camera, con le cuffie, al buio; ora erano lì, davanti a me a suonare QUELLE canzoni, a raccontare QUELLE storie, a prendermi per mano e farmi entrare dentro ad un mondo popolato da QUEI personaggi che da anni sentivo quasi come amici.
Bad Scooter, Mary, Magic Rat, Bobby Jean, Wendy, Bobby e Sherry; il fantasma di Tom Joad che mi incoraggiava a continuare sulla strada che mi stava portando a diventare assistente sociale, il protagonista di The Promised Land che urlava forte “NON SONO UN RAGAZZO, SONO UN UOMO!” e io che a 27 anni morivo dalla voglia di gridarlo con lui, il figlio dell’operaio che esce all’alba per andare in fabbrica, così simile a mio padre, di cui al mattino ricordo ancora oggi i passi e il rumore della porta che si chiudeva mentre io cercavo di svegliarmi.
Dei tanti attimi di quella sera, ricordo tra gli altri il momento in cui appena dopo l’ultimo ritornello di Born to Run, a luci accese mi girai per guardarmi attorno e mi sentii travolgere da quelle 20mila mani che battevano a tempo e da quelle 12 mila voci che urlavano quanto credessimo al fatto che prima o poi avremmo camminato nel sole.
La sensazione di appagamento provata al termine dello show fu quella che mi fece capire come mai e poi mai mi sarei lamentato per una setlist, ad un concerto; per me le aveva fatte tutte, anche se chiaramente non fu così, ma sentivo come se quella sera avessi toccato con mano una realtà che fino ad allora avevo solo immaginato.
La versione concreta dei miei film mentali, dei miei sogni musicali, di tutto quel “vorrei ma non posso” che mi aveva fatto desistere dall’imparare a suonare la chitarra e che ancora oggi ogni tanto mi si ripropone come enorme rimpianto.
Come capita spesso ai suoi concerti, come mi è capitato tutte le successive volte che lo vidi, nel tempo di un suo show si nasce, si muore e si rinasce di nuovo; si provano sentimenti opposti, rabbia ed amore, si pensa al sesso e alle lotte sociali, si piange e si balla, perché ci hanno detto che “è solo rock and roll” ma sappiamo che non è vero, perché lui per primo ha cantato di come sia un’ottima idea prendere il tuo ragazzo o la tua ragazza e andarsi a divertire ad un concerto rock, ma sappiamo che non è tutto qua, anche se sarebbe già tantissimo.
Ad un certo punto, verso la fine, suonarono Jungleland; era una delle prime volte in quel tour in cui veniva proposta, ma poco cambia. Durò una decina di minuti, 4 dei quali occupati dal sax di Clarence che raccontò quella parte di storia che le parole non riuscirono a narrare.
Non esagero se dico che potevi sentire i cuori delle persone dentro al palazzetto battere, all’impazzata, durante quell’assolo.
Oggi, dopo che Clarence se n’è andato, dopo che tanti anni sono passati da quella serata, ho ancora i brividi a pensare a quei momenti.
Perché quella sera, probabilmente non fu l’unico, ma c’era un ragazzo che in qualche modo fece pace con la sua adolescenza e cercò di incamminarsi verso una vita adulta.
Quello stesso ragazzo che rivedo ora, tempo prima, arrivare a casa, aspettare di finire cena, congedarsi dalla sua famiglia e chiudere la porta di camera sua, prendere le cassette su cui erano registrati (male) alcuni bootlegs, sistemare le cuffie, accendere lo stereo. Vedo entrare sua madre e chiedergli se quella sera intendesse uscire.
Stasera no, mamma, stasera ho un altro impegno.
È un impegno che ancora oggi gli occupa le giornate e soprattutto il cuore.
Gli affamati e i perseguitati esplodono in band di rock and roll, oppure corrono sulle scale di un palazzetto, facendole due alla volta.
Complimenti ragazzi!
Carlo