Pillola 9: Badlands (1978)

di Dario Greco.

“Non me ne frega niente delle vecchie e già girate scene. Non me ne frega niente di quelle ancora in corso. Tesoro, io voglio il cuore, voglio l’anima e voglio il controllo in questo istante.”

Chi ha detto che non ci sono legami di parentela e continuità stilistica tra Born To Run e il suo cupo e duro sequel, Darkness on the Edge of Town? Probabilmente sarà stato un ascoltatore distratto, dato che il manifesto programmatico con cui questo quarto strepitoso disco inizia è piuttosto eloquente. Le chitarre in evidenza, come la batteria di Weinberg, annunciano un suono teso e asciutto, ma non privo di brio e di gioia. Saranno semmai i testi a caratterizzare in un contesto di luci (poche) e ombre (tante) questo disco dove Springsteen mette ancora una volta sul tavolo il meglio del suo armamentario.

Qual è la sua arma vincente? Il suono? Forse, in certi frangenti sicuramente. La coesione e la compattezza di una band che aumenta di volume e di organico, grazie all’innesto dell’ottimo chitarrista ritmico, consigliere ed amico, Steve Van Zandt. Il chitarrista di origini calabresi non se ne sta certo in disparte. Consiglia, suggerisce e si incazza pure, con il suo stile da pirata burbero, ma in fondo bonario, come solo certi meridionali sanno fare. Badlands è tutto un irrompere e prorompere di tamburi. Tamburi nella notte che rischiarano fuochi sempiterni mai spenti. C’è meno sax, ma c’è un grande sassofonista che sa ritagliarsi quei pochi spazi urbani, di furente gioia e possente brama agonistica, da ex giocatore di football, quale è stato.

L’opening a cui si affida il suo autore è un brano nervoso ma non nevrotico, potente al punto giusto e incediario. Un ritmo che proprio come She’s the One paga il debito verso quel grande innovatore che è stato Bo Diddley. Springsteen non ha mai nascosto l’ammirazione (forse la venerazione) per i grandi maestri del rock and roll, i cosiddetti pionieri. Diddey viene tirato in ballo più volte dal Boss, persino in una delle sue liriche più coinvolgenti e guascone, come Seaside Bar Song (Bo Diddley, Bo Diddley’s at the Seaside Bar/ We’ll run barefoot in the sand, listen to his guitar).

Badlands è di sicuro una delle canzoni più importanti a battuta alta, composta da Springsteen dopo Born To Run. Non sarà stata una killer hit come singolo, ma forse questo alla lunga è stato più un punto a favore, che non altro. Ma cosa ci faceva Bruce sperduto tra le Badlands in cerca di identità dopo un periodo di pugni in faccia ricevuti da persone che fino a poco prima pensava fossero fraterni amici? Imparava a vivere e a stare a galla, probabilmente. La sua musica saliva di intensità e il fuoco sacro che domina gli arrangiamenti di questo disco, resterà per sempre nei cuori oscuri e nei solchi di un sogno americano effimero e fatalista.

Secondo Bud Scoppa proprio Badlands e Promised Land sono gli squadrati mid-tempo rock che fanno da battistrada come pneumatici anteriori ad alta prestazione. Non capita spesso che qualcuno sia capace di esplicitare con tale verismo sentimenti di ribellione e disapprovazione verso la realtà circostante. Aspra lotta contro l’alienazione che ci circonda e tenta di ghermirci, Badlands è lo squillo di tromba con cui Springsteen approda a un sound più maturo, asciutto e coeso. “Per quelli che hanno la certezza radicata in loro che non è peccato essere felici di essere vivi”.

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