Born in the U.S.A. oggi

di Dario Greco.

L’autore che diede alle stampe il suo settimo lavoro discografico era un artista già maturo e capace di spaziare molto in termini di scrittura musicale. Bruce Springsteen aveva quasi 35 anni, un’età che all’epoca lo collocava tra i musicisti maturi, secondo criteri che oggi non corrisponderebbero più a tale concetto, visto che viviamo un’epoca in cui si è sempre giovani, esordienti e con una carriera ancora da costruire. Springsteen però appartiene alla generazione dei baby boomer e si rivolge tendenzialmente alla X generation. Oggi Born in the Usa viene descritto come un successo senza precedenti, in termini retrospettivi e non. Sotto un punto di vista analitico siamo di fronte a una vera macchina da guerra dove la batteria di Max Weinberg è un’armatura invincibile, adatta per lanciare i traccianti di Roy Bittan alle tastiere e delle stesse scudisciate di Springsteen alla chitarra elettrica. Qui e lì, per l’ultima volta in quella decade possiamo ascoltare e ammirare gli assoli di sax di Clarence Clemons. Tuttavia il suo della E Street Band è passato da quel passo agile e leggero a un più quadrato e marziale sound, funzionale per questo nuovo repertorio, adatto ai passaggi radiofonici e a far vendere più copie possibili. In realtà è un barbatrucco, perché sotto la corazza e la cortina di synth e suoni di tendenza, il disco è ricco di episodi cupi, di canzoni in puro stile Springsteen e di un rockabilly che ha poco da spartire con il tipo di musica che gira intorno.

Eppure grazie anche alla realizzazione di alcuni brani singoli il disco spicca il volo. Quindici milioni di copie vendute solo in America, altrettante in Europa e nel resto del mondo. Le canzoni, in molti casi, sono in linea con il passato del suo autore. I’m On Fire è un pezzo che guarda al passato, così come la stessa Working in The Highway. In effetti è un disco che ha questa attitudine e qualità: sa essere attuale e contemporaneo rispetto alla proposta di quel tempo, ma guarda al passato come raramente avevano fatto i suoi lavori passati, Born To Run escluso. A parte i suoni, tralasciando l’ambiguità voluta di un refrain che lo vuole fiero patriota, resta la qualità dei singoli brani. Il tema centrale che fa la collante è quello di essere adulti, senza rinunciare ai bei ricordi della giovinezza. Come sostiene Cesare Pavese: niente è più inabitabile di un posto dove siamo stati felici. Per certi versi il disco ricorda a livello tematico quello di Donald Fegan, The Nightfly, il successo che due anni prima aveva convinto pubblico e critica. Non a caso avviene lo stesso con Born in the Usa. Sarà merito di titoli suggestivi, di accattivanti riff e lick, di una voce adulta, ma capace ancora di concedersi alcuni brevi attimi di divertimento e spensieratezza, Born in the Usa ha tutte le caratteristiche del best seller home made e anche qualcosa in più. Quel qualcosa in più è la capacità/necessità di avere un singolone apripista per lanciare un autore sempre schivo e poco accorto a livello di resa commerciale e radiofonica.

I narratori delle canzoni tendono a essere uomini alienati e scontenti, afflitti da una crisi della propria mascolinità, arrabbiati per le ingiustizie perpetrate. Un po’ come avviene nei romanzi di Stephen King dell’epoca, e non a caso il Maestro dell’horror, citerà proprio Springsteen nel suo capolavoro, It. Il sentimento predominante del disco è la nostalgia verso un’America mitica, della gioventù che non riconoscono più in quella attuale. Il cast di Born in the Usa è fatto di operai i quali scoprono che la vita è più dura del mondo promesso dai loro spensierati sogni infantili. Eppure rimane la voglia e la capacità, tipicamente springsteeniana di divertirsi e rispondere ai duri colpi della vita, durante i momenti di difficoltà, cercando sollievo in ogni modo. Del resto parliamo dello stesso autore che in Darkness on the Edge of Town aveva fatto salire sulla collina il suo protagonista e gli aveva offerto un’ultima occasione di redenzione e di libertà. Ed è proprio questa attitudine un po’ ambigua che rende Springsteen affascinante e trasversale, a livello politico, tanto che in molti riescono a proiettare su di lui il proprio pensiero. Eppure a parte la bandiera e il titolo, è tutto molto chiaro. Si tratta di un brano di protesta, nel pieno della tradizione di Woody Guthrie e di tutti i padri fondatori della canzone di ribellione e redenzione.

Mentre in passato Springsteen aveva rinunciato a pubblicare brani come Fire e Because the Night, regalandoli ad altri interpreti, questa volta prima non cede Cover Me, scritta apposta per Donna Summer e in seguito, spinto dal manager Jon Landau, compone una hit come Dancing in the Dark. Brano ambiguo a livello tematico e musicale, diventerà il primo singolo per lanciare il disco e per aprire la strada al successo mondiale, ovviamente meritato e costruito in oltre dieci anni di carriera discografica. Eppure il vero cuore di questo lavoro sta altrove, in brani intimi e poetici come Bobby Jean, My Hometown, Downbound Train e soprattutto No Surrender. Oggi riascoltandolo ci troviamo tra le mani un disco forse imperfetto e un po’ datato, ma fatto di canzoni vive, grondanti sangue, nervi e sudore; brani con un’anima capaci dopo oltre 35 anni di reclamare ancora giustizia e la loro giusta collocazione all’interno di un canzoniere ricco e vario.

Bruce Springsteen però nel mezzo del cammin, vince la sua sfida e stacca il biglietto per la tanto agognata Promised Land. Niente sarà come prima, ma non era quello il sogno del ragazzino che era impazzito in tv guardando Elvis prima e i Beatles, dopo?

Il verdetto dei critici:

“Nonostante la familiarità di temi e forme, Born in the USA si schiera contro la storia e suscita qualche emozione fuori moda. Forse preferite un divertimento meno crepuscolare, ma questo non è semplice divertimento”. (Adam Sweeting, Melody Maker, luglio 1984)

“Abbandonato le chiacchiere da ribelle che trionfa, Springsteen qui mostra quel genere di integrità morale e artistica che raramente si confà al rock. La potenza di questo lavoro sarà meno vistosa e inebriante, ma è molto più reale rispetto al passato. È la potenza di un artista che ha il coraggio di affermare il vero”. (Charles Murray, NME, agosto 1984)

Discography, Spare Parts

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