Cogliamo l’attimo e godiamoci ogni secondo

di Alberto Calandriello (Off Topic Magazine)

Roma 21 maggio 2023

Il concerto di Bruce Springsteen al Circo Massimo, dovessi e sapessi raccontarlo in pochissime parole, lo racconterei con la strofa di Letter to you: «Le cose che ho trovato attraverso i tempi difficili e i buoni, le ho scritte tutte con inchiostro e sangue. Ho scavato nel profondo della mia anima e ho firmato col mio nome vero e le ho inviate nella mia lettera a te».

Una sensazione, che accompagna da tempo le sue novità discografiche, è che sia il momento dei bilanci, dei rendiconti e, con calma e senza fretta, ma con la consapevolezza che siano inevitabili, degli arrivederci.

Non sarà un addio, perché, sempre citando un pezzo dal penultimo album, «Quando tutte le nostre estati saranno finite ti rivedrò nei miei sogni; ci incontreremo, vivremo e rideremo di nuovo», ma è innegabile che la Grande Storia Americana che Bruce più di ogni altro ha contribuito a cantare e raccontare stia arrivando alle pagine conclusive ed è giusto che nel farlo non si perda nemmeno una briciola di tutto il bello che c’è stato, nei precedenti capitoli.

Dal momento della pubblicazione della sua autobiografia, passando per l’esperienza teatrale e il cupissimo Western Stars, Springsteen riflette e ci fa riflettere non solo e non tanto sull’ineluttabilità della morte, ma sull’importanza e sul valore di ogni singolo istante che possiamo ancora goderci da vivi. Anzi, forse da questo punto di vista trovano un significato nuovo i tour fatti da scalette impazzite, richieste e concessioni mai così numerose negli anni precedenti, quasi come se dopo averlo curato e reso prezioso, Bruce ci regalasse il suo repertorio e si mettesse a nostra disposizione per farcelo ascoltare con una varietà inedita nella sua carriera. Ha capito che era finito il tempo per correre e ci ha parlato di oscurità e di bassifondi, ha preso in mano il rock rendendolo epico e poi ha pubblicato dei demo acustici ben prima che MTV staccasse le spine ai concerti, è salito nell’olimpo della musica e quando tutti si aspettavano nuove bandane e più bicipiti si è spogliato di tutto ciò e si è mostrato nudo ed incapace di amare. Non deve stupire quindi che passati i 70 affronti con trasparenza, onestà e tutto sommato gratitudine l’avanzare degli anni, la perdita degli amici e i già citati bilanci.

Il tour di quest’anno, dopo i rinvii per i motivi che ben sappiamo e forse proprio per questo ulteriormente caricato di significati, racconta come nella sua discografia trovare “hard times and good” sia sempre stato un’alternanza, tra festa e mancanze, sesso e impegno, leggerezza ed introspezione. Lo stesso autore di Jungleland ha scritto I’m A Rocker, chi ha riportato in vita Tom Joad ha cantato Pony Boy, e sono sicuro che le seconde abbiano contributo a rendere mitiche le prime, perché la musica rock è tutto questo, il suo esatto contrario e poi di nuovo punto a capo, tra contraddizioni e lucidità.

Domenica sera questo messaggio mi è arrivato dritto come un gancio destro in faccia al terzo pezzo: se My Love Will Not Let You Down parla di fedeltà ed impegno e Death To My Hometown ci indica nemici spesso insospettabili, No Surrender mi ha steso come mai in 40 anni che la ascolto, per essere così forte nel suo spronarci a resistere, a inseguire sogni e speranze, a tenere duro durante tutte le notti di tempesta che abbiamo attraversato. La scaletta, così discussa per la sua rigidità, fatto inedito nella sua carriera, racconta gli hard times and good che lui ha passato, di cui ha scritto, che ci ha fatto vivere e che ognuno dei presenti sotto al palco sa bene quanto siano stati difficili e quanto sia stato duro tener fede a quel voto da difendere. I fantasmi che abbondano nelle nostre vite non devono farci paura, anche loro hanno contribuito a scriverci questa lettera che teniamo tra le mani nel fresco della notte romana, sono quelli che hanno messo in mano a Bruce la prima chitarra, quelli che lo hanno e ci hanno ispirato, sono quelli che lo hanno reso capace di incantare 50/60mila persone alla volta e di dirci a voce alta con un sorriso ironico, che alla fine del concerto ci avrà stroncati tutti.

Faccio i miei voti a quelli che sono venuti prima, come dice in Ghosts, come cantava nel 2006 nel traditional When the Saints go marching in (We are traveling in the footsteps of those who’ve gone before) ad unire tra sacro e profano, la terra ed il cielo. Il concerto prende poi una piega ben precisa con Last Man Standing; è curioso il rapporto di Bruce con le novità da palcoscenico, lui che è un conservatore nato; quindi questa specie di karaoke anni 90 con traduzione fa quasi sorridere, ma l’introduzione al pezzo invece è lancinante; si, i sottotitoli dimostrano che la presentazione sia preparata, standard e di conseguenza sempre uguale, ma stasera, ma in questo tour, il messaggio da fare arrivare è uno e deve arrivare chiaro, diretto, come il gancio che mi ha tramortito dopo nemmeno un quarto d’ora. Last Man Standing ci dice di cogliere l’attimo, di goderci ogni secondo (enjoy every sandwich disse Warren Zevon prima di salutarci), ci dice che l’avvicinarsi della fine deve ampliare la percezione, non imbruttirci nell’autocommiserazione, ci dice che invecchiare non sarà la cosa migliore del mondo, ma è qualcosa che non a tutti è concesso, è un lusso che non tutti possono permettersi, quindi ogni secondo perso a lamentarsene è un secondo che rubiamo a noi stessi.

Sfuma il brano e mentre Roy Bittan, a mio avviso protagonista superlativo di questo tour, non a caso, visto che la spina dorsale della discografia springsteeniana si regge sul suo pianoforte, ci prende per mano e ci accompagna nelle backstreets, Bruce tiene alta la sua chitarra, sopra la quale ci sono i segni di tutte le vite che grazie a lei si sono incrociate, sono cresciute, sono migliorate. Ecco allora che il rimpianto per Terry diventa lamento universale per tutte le occasioni perse, diventa esame di coscienza, al punto che il we’d swore forever friends quasi perde il rancore e si riveste di malinconia.

Da qui in avanti è ancora più lampante l’intenzione di Bruce di trasformare la serata in una lettera per ognuno di noi, mettendoci dentro il sesso di She’s The One e Because The Night, la memoria di The Rising, l’invito a tenere duro (se abbiamo il fegato e le palle) di Wrecking Ball, l’epica di Thunder Road. Senza dimenticare ovviamente che nella prima parte dello show ci piombano addosso i dieci minuti abbondanti di Kitty’s Back, il caleidoscopio in salsa newyorkese della E Street Shuffle e, tornando a quelli che lo hanno ispirato, l’omaggio a Marvin Gaye e Jackie Wilson e con loro a tutto quell’Olimpo di talento, grazia e fascino da cui Bruce si è abbeverato come ad una fonte magica. La stessa Mary’s Place, racconto agrodolce di una veglia funebre, rinasce a nuovo splendore in questa fase dello show, con il suo let it rain catartico e commovente.

Non era forse necessario, ma sicuramente è doveroso ricordarci quanto la E Street Band sia una macchina da guerra che in queste date, forse anche perché focalizzata su una scaletta che non dipende dai cartelli, sta rinforzando il suo mito suonando meravigliosamente. Il coro quasi gospel che interviene in molte canzoni, rende Thunder Road una preghiera, laica e decisamente umana, affinché ognuno di noi trovi ancora e sempre la voglia, la forza e la compagnia adatta per andarsene dalla città dei perdenti, città che oggi capiamo più che mai essere un luogo mentale, uno stato d’animo, un approccio alla vita che da sempre Bruce ha chiesto di scrollarci di dosso, perchè il rischio è che la town full of losers ci trascini con lei dentro a quelle badlands che non a caso aprivano il disco successivo all’epopea giovanile di Born To Run, con il suo carico di disillusione.

Nel cercare una quadra alla sua lettera per noi, Bruce torna ai suoi cavalli di battaglia, alle tematiche ed ai personaggi che da sempre popolano le sue canzoni, pertanto non può mancare il reduce, non può che alzarsi quel grido doloroso, frainteso ed incompreso di chi credeva di essere corrisposto nell’amore, dalla sua patria natia. Non può mancare quella lucida e spietata lettura dell’America che compie 40 anni il prossimo giugno, con tutti i suoi singoli di successo, dall’oscuro ballerino a quelli che, in contraddizione con quanto Bruce ci sta dicendo da più di due ore, vivono nel passato e nell’effimero ricordo del loro giorni di gloria.

In una scaletta come detto più bloccata che mai, spicca la ritrovata baldanza ed esuberanza di Miami Steve, che recita alla grande il ruolo di tutta una vita, quello di compagno, di spalla, di anima rock del suo piccolo amico chitarrista, di perfetto partner per l’ennesima scenetta sullo smettere di suonare o continuare, con il suo corollario di smorfie. In una serata così piena e densa, Born To Run, come Thunder Road, risuona come invito, chi canta ha corso per molto molto tempo e ora invita tutti a fare altrettanto, dai bambini sulle spalle dei genitori, alla matura signora inquadrata mentre ha un sussulto giovanile vedendo il suo idolo strapparsi la camicia; non so quanto staremo ancora assieme, ma non mi stancherò mai di dirvelo, sembra quasi pensare Bruce mentre le luci illuminano 100mila mani alzate.

Con Danny e Clarence che ci guardano durante Tenth Avenue Freeze Out si arriva alla conclusione, acustica, solitaria e struggente, ci rivedremo ancora amico, se non sarà qui sarà altrove, se non useremo gli occhi useremo le orecchie e come sempre il cuore.

Un concerto denso, intenso, pesante come un macigno, nel senso migliore del termine, che non so se sia un arrivederci o una conclusione, ma che mi ha ricordato per l’ennesima volta quanto sia importante la sua musica per me. Tre anni di pandemia hanno cambiato la mia percezione della musica dal vivo, specialmente per grandi eventi come questo, quindi fino a fine marzo non avevo intenzione di andare a nessuno dei suoi concerti, ma l’intervento di un amico mi ha regalato questa ennesima serata. Sono passati dieci anni dall’ultimo suo concerto che vidi, sono una persona diversa da dieci anni fa e determinate cose che mi sono successe (i tempi difficili e quelli buoni) mi si sono ripresentate davanti ieri sera, assenze così forti da essere presenze, crescita personale e familiare, lo stesso invecchiamento di cui lui canta sempre più spesso. Lo scorso anno ho avuto bisogno di aiuto per superare un momento difficile e mi è stato proposto un percorso con l’EMDR, una tecnica psicologica che sposta determinati pensieri, specialmente quelli dolorosi, in zone del cervello in grado di gestirle. Alla fine della prima seduta pensavo di aver consumato tutte le mie lacrime. Ieri sera, fatte le debite proporzioni, lacrime comprese, stare di nuovo sotto quel palco mi ha ricordato quella prima seduta, da tanto avevo chiara la percezione che diversi pezzi della mia vita si stessero ricollocando in modo corretto dopo un periodo di disordine. Non mi interessa pensare se ieri sia stata l’ultima volta, perché ogni volta torno a casa con qualcosa in più e se così dovesse essere davvero, saprò sempre dove e da chi tornare per rimettere un po’ a posto i miei casini.

On Tour, World Tour 2023

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