Una Serenade Romana: ecco perché lo chiamano il Boss

di Alessandra Toni.

Chi c’è stato, non dovrà cerchiare di rosso la data sul calendario per ricordarsi quello che è successo. L’11 luglio è diventato leggenda e quel giorno è segnato nelle memorie, negli occhi e nei cuori di chi era presente. E per fortuna tra loro… c’ero anch’io.

Non è la prima volta che scrivo di un concerto di Bruce Springsteen e non sarà l’ultima, ne sono certa, ma è come se fosse sempre la prima. Perché come vi ho già raccontato, un suo live è come un’opera inimitabile, un quadro dalle sfumature e suggestioni diverse, ma sempre capace di provocare una vera e propria sindrome di Stendhal dopo la quale difficilmente si resta gli stessi.

E cari miei, trascorsa quasi una settimana da quella serata, alzi le mani dalla tastiera chi, tra quegli oltre 33.000, è riuscito a riprendersi. Io, per la cronaca, no.

E questo basti a spiegare a tutti coloro che mi chiedono “Vai a vedere Springsteen di nuovo?” le reazioni che un suo concerto riesce a provocare.

Basti ascoltare le chiacchierate che ci scambiamo nelle lunghe ore precedenti, vedere l’attività frenetica della scrittura sui cartelloni rimediati ovunque, basti percepire i brividi nell’ascoltare i racconti dei tuoi vicini di fila sui suoi concerti epici e vedere quante generazioni siano unite sotto il sole (o la pioggia, a seconda dei casi). Il più piccolo in fila è probabilmente nato sulle note di Waitin on a Sunny Day, mentre il più “vintage” segue Bruce da quando mandava “saluti da Asbury Park”.

Questo è il potere del Boss.

Ok, a lui non piace essere da tutti chiamato così, ma è innegabile che sia lui a dettare legge quando si tratta di raccontare una storia, una vita attraverso immagini evocative o un personaggio dalle mille sfumature che ha voglia di riscatto e di acchiappare quei sogni che rincorre da tempo, sfrecciando lungo autostrade che portano verso un futuro diverso. Migliore.

Lui è il Boss perché ogni volta che lo andiamo a vedere, ci invita a salire sulla sua auto e ci guida verso quei sogni che stiamo rincorrendo e pregustiamo di raggiungere, mentre sentiamo il vento in faccia e le sue note diffondersi nell’aria… note che ci scuotono dentro e ci fanno piangere, poi ridere , poi saltare, poi sognare.

Lui è il Boss quando si tratta di divertirsi, di svagarsi e giocare con la musica, attraversando generi e mood diversi, ma uniti da una stessa passione, da un identico obiettivo: regalare una serata indimenticabile, una dichiarazione d’amore alla musica e al pubblico. Lui è il Boss perché è sempre capace di sorprenderci.

E anche quel famoso 11 luglio ci è riuscito, in pieno.

La giornata si apre nel modo consueto: sveglia alle 4.30 del mattino, un biscotto al cioccolato mangiato al volo, la prima fila per farsi numerare la mano e la seconda per prendere l’ambito braccialetto del pit.

Alle 8.30, prima del solito, ci troviamo già “imbraccialettati” e pronti ad affrontare le lunghe ore che ci separano dall’atteso momento dell’estrazione del numero che stabilirà l’ordine d’entrata nel pit.

Nel corso di quelle lunghe ore ci imbottiamo di caffeina, zuccheri e carboidrati, vediamo ragazzi dormire per recuperare le energie in vista della maratona serrale o giocare a carte nell’illusione di far correre più veloce il tempo… intanto le requests prendono vita sui pezzi di cartone richiesti allo staff di Rock in Roma e leggiamo di tutto. Qualche volta fa capolino quella NYCS e penso: “Figurati se la fa!” (evidentemente le mie doti di preveggenza sono piuttosto scarse).

La giornata prosegue normalmente, come ad ogni suo concerto e arriva così l’estrazione e la speranza di sentir pronunciare un numero vicino al proprio… e a me, devo ammettere, in questi due anni di lottery, la buona sorte ha sempre dato un aiuto, facendomi entrare tra le primissime centinaia. E anche stavolta non s’è smentita.

Il sole, intanto, si fa più caldo, ma a volte si nasconde dietro nuvoloni neri che ci richiamano immediatamente alla memoria l’epica Firenze 2012…insomma, la giornata sembra essere uguale alle altre. E chi l’avrebbe detto che…

Vabbè, vabbè, un ricordo per volta.

Finalmente entriamo e capisco che stavolta mi troverò ancora più vicino a lui. E sorrido.

Passano ore, il prato dell’ippodromo lentamente si riempie e arriva il momento (da me mai capito) dello schiacciamento collettivo dove tanti riescono a recuperare diverse posizioni per avvicinarsi al palco. A discapito, però, della capacità respiratoria e motoria di ognuno di noi.

Vabbè, vabbè, il pensiero della sera ci terrà carichi.

Per la prima volta in Italia abbiamo un gruppo supporter: nei giorni precedenti molti storcevano il naso al pensiero e si chiedevano chi fossero questi Cyborgs, ma sapere che erano stati voluti da Bruce faceva ben sperare. E infatti sono riusciti a conquistare migliaia di persone in una sola mezz’ora di live: due musicisti incredibili, innovativi, trascinanti, capaci di gestire una pesante responsabilità, rivelandosi fin da subito assolutamente meritevoli di tale onore. D’ora in poi li seguirò sicuramente.

Carichi dopo il loro mini-concerto, aspettiamo… e aspettiamo… e aspettiamo.

Mai Bruce e la band si sono fatti attendere così tanto. Cosa sta succedendo?

Poi all’improvviso eccoli: entrano velocemente, uno ad uno, ma nessun microfono è stato portato al centro del palco.

Finché non sentiamo la sua voce, senza vederlo ancora… prima un sussurro acuto e poi dirompente per quel “Can you feel the spirit?” che riesce a compattare più di 30.000 persone in un urlo solo.

Finalmente eccolo sul palco e fin da subito avverto un’energia strana, particolare, fortissima: mi volto verso il mio ragazzo e gli dico “E’ carico , stasera fa il botto!” (le mie doti di preveggenza sono migliorate nel corso della giornata).

Arrivo a pochissimi palmi di mano da lui, mentre dà tutto se stesso in quell’apertura straordinaria di concerto, incitandoci, sorridendoci, portandoci con sé in questo nuovo viaggio.

Un inizio così incredibile non poteva non anticipare una serata altrettanto incredibile. E così sarebbe stato.

Dopo si inseguono le sempre trascinanti My love will not let you down e Badlands, la più recente Death to my Hometown, unaRoulette ultimamente sempre più suonata nel tour e Lucky Town.

Poi arrivano le prime requests: questa volta Bruce prende tantissimi cartelli, si capisce che vuole stravolgere la setlist ancora più del solito e seguire ciò che vuole il pubblico e così… via al rockabilly di una fantastica Summertime Blues che ci fa ballare e divertire grazie anche alla voce del grande Stevie e di seguito una grandiosa Stand on It.

Arrivano Workin on the Highway (che ha sempre il suo perché), Candy’s Room che sfuma nell’intro di Not Fade Away lasciando poi campo alla bellissima She’s the One.

Dopo un’altra request, quella di Brilliant Disguise, ecco le prime sorprese che in tanti presenti fanno sperare che stasera… forse… chissà… Piano, andiamo piano.

Bruce e la E street band ci regalano, uno dopo l’altro, tre capolavori assoluti del loro secondo album: una strepitosa Kitty’s Back che non voleva finire, la meravigliosa e struggenteIncident on 57th street e la mia adorata, energica e festosa Rosalita che forse, stasera, è bene corra veloce per raggiungere Bruce perché sta per arrivare un momento epico.

Infatti, dopo le solite montagne russe di emozioni che si erano concluse con la carica e il divertimento di Rosie, ecco Bruce scendere di nuovo a prendere una request. Aspetta, sta andando proprio verso quello striscione.

Sapevo cosa c’era scritto sopra, ma non volevo crederci e ho aspettato che venisse aperto da lui e Stevie. Ed eccola materializzarsi davanti a noi, 4 parole che avrebbero trasformato quella serata in leggenda: NEW YORK CITY SERENADE.

Ricorderò sempre le reazioni dei miei vicini di concerto, lo stupore, le grida, i sorrisi: il prato sembrava esplodere dalla gioia e dalla riconoscenza verso Bruce. Sì, perché tutti hanno immediatamente pensato a San Siro, a quella richiesta che campeggiava sotto l’ormai storica scritta Our love is real: quella sera non venne eseguita e tutti ebbero l’impressione che forse nemmeno l’aveva letta bene.

E invece sì, l’aveva letta eccome.

Solo che Bruce Springsteen non lascia niente al caso: NYCS, pubblicata nel 1973 nel suo secondo album, non è una canzone qualsiasi, ma un complesso tripudio di immagini e note che si legano tra loro per 10 minuti intensissimi. 10 minuti eseguiti live in questi 40 anni solo per 7 volte e mai in Europa.

Lui non voleva certamente “bruciarsi” un pezzo simile improvvisandolo a San Siro: voleva che diventasse un evento vero, studiando il modo migliore per trasformarlo in un regalo indimenticabile. E ci è riuscito, arricchendo una già splendida versione originale con i violini dell’Orchestra Roma Sinfonietta (l’orchestra di Morricone), che le hanno donato un tocco ancora più suggestivo, incantevole e toccante. Io non ho potuto fare altro che chiudere gli occhi e lasciarmene trascinare, per quei 10 minuti preziosi come l’oro.

Ormai tutto il pubblico era in trance, incredulo e Bruce prosegue così con una parte della scaletta più standard, ma non per questo qualitativamente inferiore: Shackled and Drawn che ci riporta a melodie più danzanti (anche se il testo è un vero pugno allo stomaco), Darlington County, Bobby Jean, l’immancabile Waitin con il bambino canterino e The Rising.

Dopo Land of Hope and Dreams, si parte con i bis.

Su questi decido di indietreggiare di qualche fila: dopo le 4 perle prese da The wild, the Innocent and the E-street shuffle, sembrava che il pubblico ancora di più volesse stringersi attorno a Bruce, come per ringraziarlo… ma a discapito della quantità di ossigeno rimanente che mi faceva rischiare di svenire davanti a lui.

Poi ecco esplodere nell’aria le immancabili Born in the USA, la “mia” Born to Run da urlare come non ci fosse un domani e unaDancing in the Dark che ha visto una proposta di matrimonio e due future spose con tanto di velo imbracciare una chitarra insieme a Bruce.

La festa continua con Twist and Shout che, come successo anche a Milano, sfuma nella fantastica Shout capace di farci saltare ed urlare in preda ad un’esaltazione miracolosa visto che, come di consueto con lui, sono state quasi raggiunte le 3 ore e mezza di concerto. Dopo Shout, la E street band esce, lasciandolo solo sul palco.

Il solito urlo del pubblico non lascia equivoci: manca lei, Bruce, non ti ci provare ad andare via senza farla. E lui non vuole certo deluderci.

Imbraccia la chitarra, prende l’armonica ed ecco partire le prime note della mia, da sempre, preferita: quella strada di tuono sulla quale stiamo correndo da 3 ore e mezza con lui. Nuovamente sento il sapore del sale in bocca: canto e mangio lacrime, come accaduto a San Siro e non sono la sola. La commozione ci colpisce tutti indistintamente, forse anche lo stesso Bruce, fino a quella frase che ci unisce in un coro solo: “It’s a town full of losers and I’m pulling out of here to win”.

Stavolta sì, il concerto è finito davvero e lentamente rientriamo nelle nostre vite. Siamo pesantemente disidratati e sudati, distrutti dalle tante ore che ci hanno visto in piedi, schiacciati uno contro l’altro. Ma sorrido e già dal giorno dopo sarei pronta per una nuova tappa.

È questo il potere del Boss, come dicevo all’inizio: ci fa salire sulla sua auto carica di sogni, aspirazioni, voglia di rivincita, di personaggi dai nomi più diversi e dalle storie più varie, per sfrecciare veloci lungo autostrade che ci porteranno chissà dove e chissà quando…l’unica certezza è che da quella auto non vorremmo scendere mai.

Wrecking Ball Tour

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