Can you feel the spirit? (Una notte con Bruce Springsteen)

di Martino Baldi.

Avvertimento: questa non è una nota di critica musicale ma uno scritto religioso. Perdonerete il proselitismo.

Can you feel the spirit?

Siamo tanti, tantissimi. In piedi in mezzo alla polvere, alle bottiglie di birra vuote, ai piccoli gruppi che resistono ancora seduti e assediati dopo sei ore di attesa, un arcipelago di strappi di scottex e briciole di panini sul mare verde dell’ippodromo delle Capannelle. Il sole sta concludendo la sua discesa, i tecnici hanno concluso la loro arrampicata sulle torri dei fari e sulla graticcia.

Can you feel the spirit?

La Fender di Bruce ha le rughe. Vedi le fosse scavate nella cassa dalle inquadrature strettissime sui maxischermi. Sembra la faccia di Richard Farnsworth in quel film di Lynch in cui l’ultrasettantenne Alvin Straight attraversa due interi stati americani a bordo di un tosaerba, quattrocento chilometri a passo d’uomo per andare a riconciliarsi col fratello prima di morire. Anche la voce di Bruce ha le rughe; il tempo e l’uso l’hanno barriccata e resa unica, affaticata e profonda come un whiskey delle Highlands. Negli occhi la luce è quella di sempre; i tramonti d’estate non invecchiano, quelli no, sono gli stessi da sempre.

Can you feel the spirit?

Galleria fotografica di Danilo Giovannangeli

Cazzo, se lo sento lo spirit, amico. Dove eravamo rimasti? Sono 26 anni che non ci vediamo e lo sento ancora, lo spirit. Eppure me ne rendo conto soltanto adesso. C’era bisogno che tu me lo chiedessi. Mi sento come Alvin Straight quando arriva finalmente dal fratello Lyle, in una baracca sperduta in un bosco del Wisconsin. “Hai fatto molta strada con quel coso per venire da me?” “Sì, Lyle”. Silenzio. Stelle. Rock’n’roll.

Quanto dura Spirit in the night? Cinque minuti? Dieci minuti? O forse, più realisticamente, dura quarant’anni. Il concerto parte da lì, dal 1973, dall’inizio di tutto. I genitori di alcune adolescenti che adesso si strappano i capelli urlando sotto il palco forse non erano ancora nati, o piagnucolavano appena in un asilo nido della Garbatella, o di Bucarest, o di Stoccolma, o di Siviglia. C’è gente da tutto il mondo qui. E di tutte le età. Sedicenni accanto a ultrasessantenni, con le stesse magliette e le stesse camicie sudate dal pomeriggio. Ripartire da lì, dalle radici, è un modo per tenere tutti insieme. Il rock’n’roll non dimentica nessuno, non lascia nessuno per strada. Le cartoline da Asbury Park arrivano sempre puntuali a tutti coloro che ne hanno bisogno.

Quello che succede nelle tre ore e mezzo di concerto non si può raccontare. Solo chi ha assistito a un concerto di Springsteen (grazie al cielo – il cielo di Alvin Straight – è il mio quarto, seppure di tempo ne è passato molto dall’ultimo) sa cosa significa. Verrebbe da dire che il mondo si divide tra coloro per cui il rock è una religione e quelli che non hanno mai visto Springsteen dal vivo. La scaletta è unica, come sempre. I motori sono messi a punto e il pubblico è scaldato con, tra le altre, una Badlans di altri tempi, una endovena millesimata da veri amatori come Roulette e una Lucky town in cui Bruce mostra come sia stato di capace di infondere la brillantezza lentamente ceduta dalla voce alla propria chitarra; quell’ormai mitologico ibrido, anch’esso unico, tra una Telecaster e un’Esquire è ormai un vulcano lirico che riversa brividi. Non lo ricordavo così: Bruce in questi anni è diventato un gigante anche come chitarrista. Intanto si getta tra il pubblico, stringe mani, distribuisce baci, sorrisi e saluti “proprio a te, sì proprio a te”. You’re the one.

Galleria fotografica di Danilo Giovannangeli

Comincia presto il gioco del juke box. I cartelli alzati con le richieste sono centinaia. Blues e rock’n’roll la fanno da padrone. Bruce fa pure i sondaggi: volete Candy’s room o Brilliant disguise? Con la prima imposta dai pretoriani dello zoccolo duro per acclamazione. Segue un dovuto omaggio quasi integrale a The wild, the innocent and the E street shuffle, giustamente rivalutato come una delle pietre miliari della storia del rock, un grand guignol metropolitano di miserie, sogni e passioni. Quattro pezzi per i quaranta minuti e oltre più incredibili della musica dal vivo della mia vita. Kitty’s back (con la E Street Band che si infiamma in un susseguirsi di assoli da far venir giù anche i voli della Ryanair che da Ciampino continuano a solcare il cielo) , Incident on 57th street, Rosalita (Rosalita, cazzo! Al primo accordo si sono messi a ballare anche i cavalli delle scuderie dell’ippodromo) e infine una sorpresa: la super richiesta New York City Serenade, eseguita in prima mondiale con l’accompagnamento degli archi dell’Orchestra Roma Sinfonietta. Il tempo sospeso nel lungo prologo iniziale al pianoforte, le incrinature urbane e notturne della chitarra, il sussurro della voce di Bruce “Billy, he’s down by the railroad tracks…” Siamo tutti senza fiato quando le luci si accendono sugli archi a incoronare la storia di Billy e Diamond Jackie. Un pezzo infinito che arriva al cielo. Scriverne soltanto fa accapponare la pelle. Penso a tutte le mie Jackie, alle mie storie andate a male, alle mie fughe da me stesso, in macchina , di notte, quando anche la Toscana può essere il New Jersey perché gli occhi guardano il cielo e il cielo – il cielo di Alvin Straight e di Springsteen – è lo stesso sotto ogni latitudine. Caro Kant, a volte non c’è spazio per nessuna legge morale; certe notti è cielo stellato dappertutto, sopra di noi, dentro di noi, ovunque. Solo cielo, buono per amare o disperarsi, confortarsi o piangere, correre o restare. Ci vuole una serenata allora, play me your serenade, ti prego, suonala ancora, man. Anche Bruce si commuove e alla fine saluta uno a uno per nome e con un abbraccio gli orchestrali, grato di una gratitudine vera. Grato per la bellezza. Non sarà lei – lo abbiamo sempre detto – a salvarci?

Il concerto sembra quasi sul punto di spirare, di spengersi nel nulla del cielo, dissolversi in stelle come ogni cosa dovrebbe fare a un certo punto della notte. Invece la temperatura sale di nuovo. Dopo la malinconia c’è da ballare. È la lezione del rock’n’roll. Si vola veloci, veloci, veloci sulle note di Darlington County, di Bobby Jean, di Waiting on a sunny day. Per poi precipitare nel crogiuolo torrido dei bis, in cui tutti siamo fusi in un’anima sola che canta all’unisono. Da Born in the USA a Born to run, da Dancing in the dark a Tenth Avenue Freeze Out, con un commovente omaggio al grande Clarence Clemmons, perché il rock non dimentica, non può dimenticare, altrimenti non è rock. Il resto – scriverebbe un nostro grande poeta – è “roba da panchine, abbracciamenti”.

Galleria fotografica di Danilo Giovannangeli

Intanto il Boss continua anche con i suoi numeri da saloon. Si getta tra la folla, fa salire sul palco un bambino preso dal pubblico e lo fa cantare sussurrandogli il testo nelle orecchie, fa imbracciare la chitarra a due improvvisate sparring partner in lacrime dall’emozione, balla a due con una fan e impone al suo boyfriend di inginocchiarsi e chiederla in sposa davanti al mondo, sul palco del Wrecking Ball Tour! Questo è Springsteen, anche nel suo cabaret, necessario come la birra del sabato sera per un irlandese. Perché se c’è qualcosa di straordinariamente unico in quarant’anni di questo mostro sacro è che nemmeno per un secondo si ha mai l’impressione di vedere il professionista impeccabile che comunque è, ma sempre e soltanto un uomo innamorato, innamorato del suo lavoro, della sua missione, dei suoi compagni di strada, del suo pubblico. Innamorato, illuminato e desideroso di condividere il suo amore e la sua luce. Innamorato soprattutto della musica e della comunione tra uomini che sa creare. Perché il rock – questa è la grande lezione che in quarant’anni non è venuta mai meno neanche un secondo – è una cerimonia ma non è cerimoniale; il rock è la voglia e la possibilità, è il bisogno e la volontà, la mancanza e la forza. Il rock è una religione perché ci offre una strada praticabile per vivere insieme ogni momento della nostra vita, piangere insieme, correre insieme, ridere insieme, combattere insieme e alla fine, sempre e comunque, qualunque cosa accada, ballare e ballare e ballare insieme. Qualche volta anche da soli.

Springsteen è allo stremo. Sembra di nuovo finita e invece partono due rock’n’roll filati da adrenalina pura in compresse da 1000mg. Twist and shout e Shout non finiscono mai, perché niente veramente finisce. Mai. Due, tre, quattro, cinque volte scende il silenzio e ogni volta riparte l’urlo. Siamo insieme, gente, siamo una cosa sola. La stessa amarezza e la stessa stanchezza, ma anche la stessa voglia di vincerla e non arrendersi , la stessa voglia di ballare fino all’ultima stilla di energia, anche oltre. Toccatemi tutto ma non la mia speranza, toccatemi tutto ma state lontani dalle mie scarpe di camoscio blu. C’è ancora nel cuore di Springsteen un piccolo grande Elvis che non muore mai, come in quel bambino di sette anni che chiese ai genitori una chitarra dopo aver visto Presley in televisione e in sella a quella chitarra si è gettato a capofitto nelle strade del destino ed è diventato una leggenda del rock, il più grande artista americano degli ultimi cinquant’anni, un classico che come nessun altro – nessun altro! – ha saputo raccontare l’anima più dolente e orgogliosa del mondo, la sue campagne e le sue metropoli, i suoi sogni e i suoi amori falliti, la voglia di farcela e la paura anche solo di provarci, l’anima di chi ce la fa e di chi non ce la fa. C’è la verità di tutti nelle sue canzoni, c’è onore per tutti, come deve essere.

Saluti e buio. La E Street Band lascia il palco, tutti benedetti, uno a uno, dagli applausi di un pubblico in delirio (ma si può ancora parlare di “pubblico” per un concerto del genere?) Saluti e buio. Ma lo sappiamo che il nostro angelo custode è lì da qualche parte nel buio. Ed eccolo riemergere come l’eroe dei film, quello che non muore finché non ha dato tutto, un amico che non ti lascia mai solo, con in braccio la chitarra acustica e, per la prima volta nella serata, la fedele armonica. Le note finali sono per Thunder road in una versione lentissima e praticamente corale in cui ognuno mette dentro qualcosa, la strofa preferita, il verso tatuato nel cuore, le ultime lacrime della notte in cui gli sono scorsi dentro tutti i maledetti e benedetti anni della propria vita, tutti i propri errori e tutte le proprie scintille.

Adesso è il silenzio davvero e ce ne andiamo alla spicciolata tra le lunghe staccionate dell’ippodromo trasformate nell’argine di un fiume umano, un fiume silenzioso e denso, scuro, inebetito e incredulo. Tutti certi, come sempre di aver fatto parte – di fare parte! – di qualcosa di unico, di un amore che non finisce mai.

Quando tornerete alle vostre case, stanotte, date una carezza ai vostri bambini. E dite loro che è la carezza di Bruce Springsteen.

(Roma, 12 luglio 2013)

Pubblicata anche su poetarumsilva.com

Wrecking Ball Tour

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