Ritorno da Broadway

di Andrea Sartorati.

Eccomi di ritorno da New York City, dove io e mia moglie abbiamo assistito alla replica numero 215 dello spettacolo “Springsteen on Broadway” e mi è tornata la voglia di scrivere uno dei miei papiri, come ai bei tempi in cui qualche anima pia si sforzava di prestare attenzione a leggere qualcosa (in generale, non di mia produzione) di più lungo di tre righe.

GIOVENTU’ BRUCIATA – Inizio col dire che non ho più (o, probabilmente, non ho mai avuto) l’età per certi viaggi. Doverista – ho scoperto questo splendido aggettivo riferito a Enzo Biagi e, con le dovute proporzioni e la necessaria umiltà, me ne approprio – sino al midollo, ho infatti optato per una trasferta di 3-giorni-3 al fine di minimizzare i disagi lavorativi e ora vergo queste righe distrutto dalla fatica e senza naturalmente esser riuscito ad evitare alcuna criticità in ambito professionale. Considerando poi che in bassa stagione non esistono voli diretti per gli States da Venezia, anche uno scalo tecnico di un paio di ore nella mia amata Londra contribuisce a consolidare come elementi fondanti di questa mini vacanza soprattutto le code ai check-in, i transfer fra i terminal, le attese delle navette dal parcheggio, le file per i taxi verso l’hotel e i severi controlli di sicurezza.

Io e Nadia abbiamo passato più tempo al Marco Polo, a Heathrow e al JFK che in città e a nulla è valsa la nostra convinzione che lo status di “recurring visitors” con un ESTA ancora in corso di validità fosse equiparabile ad una buona carta delle probabilità pescata al Monopoli, tipo uscire gratis di prigione senza il doppio sei tirando i dadi. Ci hanno squadrato ugualmente e chiesto per l’ennesima volta se siamo dediti all’importazione di armi, cibo, beni preziosi o valuta sonante. abbiamo appoggiato la valigia sul materasso dell’albergo nella grande mela oltre 20 ore dopo il suono della sveglia patavina e un po’ abbiamo invidiato Zoe e Piperita, le nostre gatte, che alla partenza non ci hanno degnato di un minimo sguardo e sono, giustamente, rimaste a dormire nella loro cuccia extra-deluxe a tre piani, con un piatto di cibo premium già pronto ad attenderle al risveglio.

LA RECENSIONE – Mi sono avvicinato all’evento ignorando volutamente la lettura approfondita di qualsiasi recensione e ho limitato al minimo sindacale la visione dei rari spezzoni audio e video relativi a questo progetto. Certo, in precedenza avevo divorato, ma in italiano, la buona (non era così scontato) autobiografia su cui si basa l’idea stessa dello spettacolo e dato un’occhiata alla trascrizione puntuale in lingua originale del parlato, giusto per evitare che la mia scarsa comprensione dell’inglese mi facesse interpretare male un racconto sull’infanzia nel New Jersey, scambiandolo per una dichiarazione a favore del candidato renziano alla segreteria del PD.

Non giudico mai le condotte altrui (il mio motto è sempre lo stesso: non esiste un modello giusto e uno sbagliato di vivere, purché poi qualcuno non mi etichetti perché non mi vengono naturali alcuni comportamenti comuni, come il tifare Ferrari o il divertirsi alle cene rumorose o il preferire il campeggio all’albergo), ma l’atteggiamento fiero e orgoglioso – ma di cosa, poi? – di alcuni (non tutti) fans in attesa fuori dal teatro dalle due del pomeriggio, sotto un vento gelido e nella speranza di ottenere dopo parecchie ore un autografo o una distratta stretta di mano, non mi ha messo dell’umore migliore, per quanto mitigato dalla buona battuta dell’addetto all’ingresso: “guardate che se comprate un biglietto, lo vedrete senza dubbio meglio e in una situazione assai più confortevole“.

Sono però bastate le primissime impressioni appena varcata la soglia di questo teatro davvero minuscolo, la scenografia minimal ma molto elegante, il buio assoluto in sala (le rigidissime regole di condotta impongono il reale spegnimento dei telefoni, ma forse agli americani non serve nemmeno ricordarlo), l’ingresso in scena con le prime battute recitate un po’ al microfono e un po’ con la sola voce naturale a rimbombare fra le assi del Walter Kerr Theatre per farmi dimenticare il sonno arretrato, inchiodarmi alla sedia e immergermi in un’atmosfera magica e emozionante.

Questa condizione di sospensione dal tempo e di estasi quasi mistica sarà durata poi per tutta la sera?

IS IT A CONCERT? IS IT A SHOW? – Allora, per almeno un’ora abbondante sono stato veramente convinto di assistere a qualcosa di unico. La mia aridità è nota, non per altro stravedo per una serie tv (Seinfeld) che in Italia non ha cagato nessuno il cui motto principale “no hugging, no learning” rifletteva la volontà di non adeguarsi alla deriva buonista e di finto moralismo verso cui tende qualsiasi prodotto di spettacolo. Mi sono pero’ entusiasmato davvero, vacillando emotivamente soprattutto nelle parti dedicate al rapporto con il padre e con la madre e, in entrambi i casi, con gli inevitabili pensieri e le preoccupazioni legate al passare del tempo. Mi sarei giustificato dicendo che mi era entrata una bruschetta nell’occhio (cit.), ma in un paio di passaggi ho fatto proprio fatica a ricacciare dentro la lacrima.

Anche il ricordo dell’amicizia con Clarence e il passaggio sulle proprie radici mi sono sembrati autentici e sinceri, al netto di un po’ di inevitabile retorica quando si parla di chi non c’è più o dei bei tempi andati. Ci casco io discorrendo alla macchinetta del caffè di Van Basten (che però era davvero un filo più forte di Cutrone) e delle merendine di una volta, figurarsi se non ha titoli per farlo chi ha attraversato più decenni d’oro del rock’n’roll.

In tutta questa prima metà prevale sicuramente la dimensione teatrale dello spettacolo. Nemmeno sotto forma di un copione recitato, ma alla stregua di una chiacchierata a ruota libera davanti all’asta del microfono. una roba da stand-up comedian, come direbbero quelli che guardano Jimmy Fallon sulla NBC tutte le sere, invece di fare triste zapping tra Rai Due e Italia Uno.

Il pubblico medio è attento, ma forse non attentissimo: non che sbadiglino, ma gli ululati da concerto che caratterizzano le pause assomigliano molto ad un invito a tagliare le parole e darci dentro con quella fottuta chitarra.

Ho apprezzato enormemente la sincerità di Bruce di rivelare, se mai ce ne fosse bisogno, che è tutto un trucco e una finzione: il sono nato per correre e per fuggire a fronte di una vita passata quasi costantemente a un quarto d’ora dai luoghi natii (passaggio che mi ha ricordato tanto il mio evergreen dell’essere esterofilo senza avere il coraggio nemmeno di tradire l’edicolante sotto casa: quante volte ho comprato per la seconda volta riviste che mi tiene da parte solo per il timore di ferirlo), le canzoni sui lunghi viaggi in macchina scritte da uno che non aveva ancora la patente, le dediche agli sfruttati del mondo del lavoro da parte di chi non ha mai timbrato il cartellino in vita sua. Ma gli spettatori quel trucco non vogliono ammetterlo oppure non lo capiscono nemmeno se glielo spieghi per bene e infatti il responso dell’applausometro premia soprattutto le canzoni, specie quelle più famose o comunque eseguite nella versione più simile possibile a quella dei concerti con la E-Street Band.

Ed è qui che forse Bruce cade a sua volta nel suo stesso tranello oppure non riesce proprio a rinnegare la sua vera essenza di rocker e non di attore: nella seconda parte dello show il testo diventa un po’ più sfilacciato (avrei volentieri evitato i ringraziamenti al pubblico che lo segue, doverosi ma non proprio il massimo dell’originalità, per continuare con la costosa seduta di psicoterapia) e il tutto prende le sembianze di un greatest hits in versione intima, ma senza troppi sforzi di arrangiamento originale. Dopo la conclusiva “Born to Run” un dubbio si insinua forte ed è lo stesso che qualche buon amico (di quelli sintonizzati sulla mia stessa lunghezza d’onda) mi aveva anticipato: abbiamo assistito a qualcosa di conclusivo, ad un cerchio che si chiude?

Probabilmente sì: non in senso assoluto perché ci saranno sicuramente altri stadi, altri palazzetti e altri teatri, ma come esperienza personale di fan sarà difficile tornare ad immaginare contesti “normali”. Già li tolleravo poco negli ultimi tempi, ma probabilmente oggi sarei incapace di resistere nuovamente a scalette senza capo né coda e alle scenette dei cartelli con le richieste o alle palpatine di culo per mandare in estasi chi si illude di essere in intimità con una rockstar solo perché frequenta con costanza le transenne.

Mi auguro che Springsteen trovi la forza da questo riuscito esperimento per osare ancora e in altre forme. E pazienza se per strada si smarriranno alcuni di quelli che giudicano la propria esistenza solo in base al numero di concerti visti.

VALUE FOR MONEY – Ora bisogna affrontare il punto fondamentale. Il biglietto dello show vale la trasferta? Io e la mia signora la rifaremmo anche domani, ma con tutta probabilità lo diremmo con qualsiasi pretesto per battere la pigrizia e obbligarci a visitare una volta di più una città in cui non sappiamo mai cosa andare a vedere di preciso (ad agosto 2017 entrammo in crisi per individuare la decima attrazione utile a sfruttare sino in fondo la card turistica), ma che ci basta vivere a casaccio per stare subito un po’ meglio. Per chi non lo sapesse e volesse partecipare al dibattito rammento che stiamo parlando, almeno per il mio tagliando, quello più costoso, di 850 dollari. In lettere, come per gli assegni: ottocentocinquanta/00. Face value, non dai bagarini: mi ha fatto impressione quando ho stampato i biglietti e continua a farmela adesso che questi maledetti soldi, che comunque in qualche modo devo sprecare e che un domani non saprei proprio a chi lasciare, sono stati belli che addebitati.

Chiarisco sin da subito che non mi sentirete mai criticare il prezzo di uno show o di un telefonino, anche perché non si tratta di beni di prima necessità e nessuno mi ha puntato una pistola alla tempia per adeguarmi alle abitudini di vita e di acquisto dei nostri conoscenti. Fermarmi alla naturale e ovvia spiegazione dei fan babbaloni disposti a pagare qualsiasi prezzo e quindi alla mercé dell’organizzatore cattivo, avido e sfruttatore mi sembra banale e mi ricorda la maestra delle elementari che voleva plasmare le nostre povere menti con un agghiacciante “è giusto che i calciatori in mutande guadagnino i miliardi e lo spazzino e il dottore che fanno un lavoro utile muoiano di fame?”. Meno che mai userei un metro morale per valutare la cifra spesa, frutto comunque di comportamenti onesti e virtuosi: sinceramente, se devo parlare di etica, trovo molto più scandalosi i 15 euro che alcuni ristoratori di Lignano Sabbiadoro spennano ai turisti tedeschi per degli improponibili spaghetti allo scoglio o per delle vergognose pizze surgelate.

Temo che nel caso specifico del biglietto di Broadway molti miei predecessori siano vittime di quella che chiamo la sindrome del Folletto, del quale non si trovano in giro recensioni negative: dopo aver pagato 2000 euro per un aspirapolvere normalissimo, risulta un po’ difficile ammettere candidamente che ci si aspettava qualcosa di meglio.

Fatte tutte queste premesse, affermo con estrema onestà intellettuale che ritengo lo spettacolo meritevole di quattro stelle e mezze, ma il rapporto qualità/prezzo si ferma un po’ più sotto. Che non significa null’altro che è stata una bellissima serata, senza dubbio non replicabile in nessun altro contesto, ma che non ho vissuto un’esperienza trascendentale, tale da portarmi per paragone a giudizi disprezzanti rispetto a tante altre piacevoli giornate che ho inutilmente trascorso su questo pianeta.

SETLIST – Molti dei fan duri e puri mi considereranno estremamente fortunato perché sono capitato in una delle rarissime serate di questa parte di carriera in cui Bruce offre un fuori-programma finale, a luci accese e con assoluta libertà di immortalare quei minuti con foto e video. A me invece dispiace essere incappato in una di quelle occasioni senza la presenza della moglie Patti.

Non tanto per la giustificazione più o meno plausibile, visto che il nostro ha parlato di indisposizione mentre ella stessa pubblicava sui social le foto sorridente a cavallo lungo i sentieri della residenza, ma perché comunque la relazione di coppia (e le relative canzoni in duetto) è una parte fondante della narrazione e quindi mi sento privato di una parte fondamentale della trama. Non credo che le compagnie teatrali che mettono in scena l’Otello, taglino una volta su dieci le parti di Desdemona nel caso in cui l’attrice sia assente.

MISANTROPIA – La meno sempre con la mia scarsa fiducia verso il genere umano (anche questa volta non ho resistito e nella ultra-radical-chic libreria strand ho fatto incetta di spillette; non quelle per lanciare “Michelle2020”, ma di quello che potrebbe il manifesto programmatico del nostro partito politico preferito: “less humans more cats”), eppure questa trasferta mi ha regalato alcuni confortanti segnali di gentilezza e buoni sentimenti.

A partire, ovviamente, dalle due persone che, senza tanti problemi di privacy, mi hanno girato le credenziali dei propri account Ticketmaster e, in virtù del loro essere “verified fan” certificati (io, ovviamente, non sono stato sorteggiatio in alcuna occasione), mi hanno permesso di utilizzare la seconda metà dei loro codici di accesso alla prevendita di due biglietti per acquistare prima il tagliando mio e poi quello di mia moglie. Non li cito in questa sede perché, come noto, la comunità sprignsteeniana è fatta di gelosie e ricatti inenarrabili, ma la nostra riconoscenza nei loro confronti è sincera ed eterna.

Il mio saltellare per casa, con esultanza adolescenziale identica a quando Rooney segnò in rovesciata al Manchester City, il giorno dell’acquisto era dovuta in parti uguali al poter finalmente dire “ci sarò anch’io” e alla consapevolezza di aver lasciato qualche sassolino di amicizia in persone che la vita ci porta a incrociare a volte anche meno di un paio di occasioni all’anno. Non è poco, dato che a volte rifletto sul fatto che non saprei su chi fare affidamento nella mia rubrica telefonica qualora mi trovassimo in panne con la macchina nella mia città.

Non mi dilungo invece sulla cortesia di personale, commessi e addetti pubblici di Inghilterra e Stati Uniti, sia perché la considero una caratteristica innata delle popolazioni anglosassoni sia perché, un po’ come accade quando si rivelano a nostri casuali compagni di viaggio, come possono essere dei vicini di posto in treno, dettagli anche intimi della propria vita, risulta sempre un po’ più facile essere delle persone migliori con chi abbiamo la certezza quasi matematica di non incrociare più per il resto dell’esistenza.

Devo invece deludere mia madre, che era certa che, nonostante i prezzi, qualche anima pia avrebbe acconsentito lo scambio di posti, dato che la mia signora si trovava 3-4 file (e 200 dollari) più indietro.

Last but not least, non posso non citare la coppia di coniugi losangelini (stavo per scrivere “di vecchi”, salvo poi accorgermi che probabilmente sono miei coetanei) seduti appena dietro di me e che alla fine dello spettacolo mi hanno chiesto con mia enorme sorpresa il numero di telefono.

Il motivo? Avevano notato che il mio stellone mi aveva abbandonato ancora una volta e che durante “this hard land”, con l’unica occasione della mia vita di fotografare Bruce a cinque metri di distanza e perfettamente illuminato, la fotocamera dell’iPhone XS Max nuovo di pacca (altri mille bigliettoni verdi dello zio Sam, questa volta messi nelle mani del simpatico commesso indiano dell’Apple Store della 5th Avenue) mi ha clamorosamente e inesorabilmente abbandonato, con orgasmica esultanza postuma dei sostenitori di Android. Sarà stata la mia espressione alla Charlie Brown quando Lucy gli sposta il pallone da football o l’albero gli mangia l’aquilone oppure la consapevolezza che ai giorni nostri se non si è in grado di fare la relativa storia su Instagram, è come non aver vissuto l’esperienza, ma si sono offerti di mandarmi – e nella notte lo hanno fatto – gli scatti e i video di quei minuti che le mie preziose e costose appendici informatiche si sono perse.

LE CITTA’ CHE AMIAMO – Chiudo con la consapevolezza di un amore rinnovato e consolidato per la città di NYC (ai punti, ma solo ai punti, però ancora seconda dietro a Londra nel mio personalissimo tabellino) e la promessa di un nuovo ritorno a breve (magari per la maratona 2019?), anche se la prossima tappa programmata è la visita alla mostra dei Peanuts alla Somerset House nella capitale britannica.

E qui sfodero, come banalissima chiusura, un mio cavallo di battaglia, di quelli che alle cene mi fanno illusoriamente apparire una persona interessante (anche se al secondo incontro non so già più cosa raccontare): ho ormai capito che mi innamoro solo di quelle città che non vogliono imporre alcuno stile.

Roma e Parigi sono città meravigliose, ma, rispettivamente, troppo… romane e parigine. Se non ci si adegua in qualche modo al loro modo di essere, è difficile che possano accogliere a braccia aperte. New York e Londra invece non chiedono nulla in cambio e forse per questo rappresentano il mondo e non una sua piccola parte: prendono in prestito il nostro DNA, lo frullano insieme a quelli già esistenti e forniscono un nuovo risultato finale. Così ci si può illudere che in quelle tazze colorate, anche se rigorosamente Made in China, con scritto I Love NYC ci sia pure un pezzetto di me, fosse anche solo la parte sbeccata del manico.

Spare Parts
2 comments to “Ritorno da Broadway”
  1. Essendo stata a vedere lo show pochi giorni dopo Andrea, esattamente 15 e 16 novembre, il suo bellissimo racconto mi ha fatto rivivere, ora per ora, minuto per minuto, le emozioni sempre forti che provo al cospetto di Bruce e mi ha riportato quella indefinibile sensazione di incanto e di magia che mi avvolge ogni volta che mi aggiro, “a naso per aria”, per le strade di NYC.
    Mi permetto di aggiungere solo un paio di righe in merito alla mia esperienza personale.
    Riguardo a NYC, anche per me è sempre bello tornarci, anche per poche ore o pochi giorni. E la cortesia e le attenzioni della gente mi fanno sentire così a mio agio e benvenuta che sto considerando di andarci più spesso come terapia per accrescere l’ autostima 🙂
    Quanto allo show di Bruce Springsteen, lo avevo già visto e raccontato a dicembre dello scorso anno, ma non ho resistito alla tentazione di rivederlo ancora una volta prima della sua chiusura definitiva, nonostante il costo dei biglietti induca a qualche riflessione, immancabilmente sconfitta dal piacere di una serata piuttosto unica.

    Rispetto allo scorso anno lo spettacolo è durato 45 minuti in più, 2h:45′ in tutto. Ha allungato soprattutto il parlato, Growing Up è interminabile e ne risente un po’ il ritmo dello spettacolo, anche se l’emozione serpeggia ad ogni accordo di chitarra che esplode letteralmente nel silenzio e nella perfetta acustica del teatro.
    Se lo show dello scorso anno dava l’ impressione di essere più improvvisato e spontaneo, ora lo stesso appare più curato, arricchito e spettacolare, più consistente ed efficace sia negli effetti che nei ritmi.
    E se lo scorso anno Bruce appariva talvolta incerto ma anche tenero e scoperto,
    adesso è tornato in comando di tutto, si muove sul palco con grinta e assoluta sicurezza.
    E’ vero che nella prima parte dedica più tempo alla narrazione e si mantiene più fedele ai tempi di un vero recital mentre nella seconda concede più spazio alla sua musica ed alla sua vocazione di vero rocker ed insuperabile comunicatore, si direbbe quasi suo malgrado, ma anche con grande piacere suo e nostro 🙂

    Per quel che può valere la testimonianza di chi, come me, ha gioito, ha sofferto, ha riso, pianto ed è cresciuta respirando quella musica:
    Bruce è stato spettacolare, in forma smagliante, voce bellissima, energia pazzesca. Soprattutto la sera della nevicata è sembrato voler ricompensare il pubblico che aveva affrontato il maltempo con una prestazione generosa e molto intensa. Sempre rispetto all’anno scorso concede anche qualcosina in più di interazione al pubblico e alla fine si ferma a lungo a strigere mani sotto palco.
    Rivederlo sul palco è sempre dirompente, le 2h:45 sono volate
    Non saprei dire se ho preferito gli show dello scorso anno o quest’anno, sono contenta di aver avuto la fortuna di vederli entrambi e di essermi ancora una volta lasciata trasportare dall’incanto del suo Trucco Magico.

  2. Broadway….e altro.
    Vi scrivo questa per la prima volta, nonostante vi legga ormai da svariati anni. Certo ,tra fatturazione elettronica, impegni lavorativi e varie commissioni di fine anno, dovrebbe essere altro a venirmi in mente ma l’amore per la musica e la passione per Bruce, non mi han fermato da dir la mia in merito alla questione Broadway. Innanzitutto devo specificare che non sono contro a priori alla pubblicazione di On the Broadway ma non trovo il senso di un doppio cd quando avrebbe avuto un significato diverso un dvd magari tradotto con i vari sottotitoli , soprattutto per un mercato diverso e non anglossassone. A parte dico pure che considerando l’età ,che non è più la stessa di quando era nato per correre, da lui non mi aspetto certo più capolavori ma almeno lavori dignitosi che siano all’altezza della sua fama. Non mi importa che sia con la E.Street o meno ma che riallacci quella narrazione che almeno per il sottoscritto ha rischiato di non far suonare più quel campanello che squillava ad ogni sua uscita.Troppe le delusioni provate con High Hopes ed inutile un Chapter and verse. Crisi creativa …? Forse, ma spero che la prossima mossa possa smentirmi alla grande!
    Buone Feste e scusate per le lungaggini.
    Armando Chiechi

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