San Siro Blues Again: Springsteen & us

di Stefano Vettorello.

“La gente credeva di ballare e invece lui li ha mandati tutti a casa”. Questo è ciò che mi ha detto l’altra sera, prima delle show milanese, Dan Zanes, cantante e leader dei Del Fuegos, la band che qualche anno fa jammò col Boss l’intramontabile Stand by me. L’affermazione si riferisce al nuovo disco di Bruce e alle aspettative del pubblico dopo l’incredibile successo di Born in the USA. C’è una verità nelle parole di Zanes: Springsteen è uno dei pochi artisti che fa quello che la gente non si aspetta. (Mauro Zambellini, recensione di Tunnel of Love. Il Mucchio Selvaggio n.118 – Novembre 1987)

Con questo incipit uno Zambellini particolarmente ispirato (massimo rispetto per Zambo, un grandissimo) iniziava la sua vivisezione del tunnel dell’amore springsteeniano. Erano tempi in cui l’informazione, musicale e non, era ben lungi dal girare all’impazzata a velocità supersoniche, e spesso succedeva, come in questo caso, che la recensione di un disco ti capitasse sotto agli occhi diverso tempo dopo la sua uscita nei negozi.

Quelle parole di Dan Zanes (personaggio che adoro per meriti acquisiti sul campo, ma basterebbe quella frase a garantirgli la mia eterna ed incondizionata stima) e la conseguente analisi che da lì partiva, mi aiutarono non poco a districare il bandolo della matassa e a metabolizzare l’effetto “doccia fredda” che quel disco mi aveva procurato. Mi diedero, per così dire (ah, quando ancora il giornalismo musicale aveva un senso…), una chiave di lettura rispetto a quello che attraverso “il mio sentire” di allora non avevo colto se non in maniera disarticolata.

A quell’età i tre anni che separarono il Tunnel da Born in the USA mi erano parsi un’era geologica, e la fame di Rock’n’Roll, anzi, di Bruce’n’Roll, era salita a preoccupanti livelli di guardia. Invece niente festa, luci spente, tutti a casa. Sei tu Bruce, o è solo un brillante travestimento?

Già allora in fatto di docce fredde si trattava della seconda. La prima era stata causata dal vederlo passare in un batter di ciglia da culto quasi carbonaro a tutte le copertine possibili, compresa quella di Famiglia Cristiana; oggi viene da sorridere a pensarci, ma lì per lì non era mica così facile da mandar giù, era come vederselo “scippare” da chi non ne aveva titolo. La terza, forse la più fredda di tutte quelle a venire, sarebbe arrivata dopo altri cinque eterni anni, quando mi ritrovai tra le mani Human Touch con la Banda spedita nel frattempo a spigolare.

Insomma, era tempo di capire che dopo l’obnubilamento sensoriale che caratterizza le prime fasi di ogni storia d’amore che si rispetti, la prosecuzione non sarebbe stata solo rose e fiori.

Era arrivato il momento di mettersi in discussione, sarebbe servito un po’ di sacrificio o, in altri termini, occorreva fidarsi, e io, contraddicendo alla regola secondo cui è bene credere all’arte e non all’artista, prima di tutto ho sempre creduto in Bruce Springsteen. Non una fede cieca e talebana, questo mai, nemmeno per un istante, ma un rapporto di riposta fiducia mai tradito, neppure nei momenti in cui (succede) l’ho sentito più lontano senza riuscire a sintonizzarmi completamente. A dirla tutta, ma proprio tutta fino in fondo, non è che con lo Springsteen di questi ultimi anni abbia avuto una frequentazione facile; tuttavia, non per questo non gli riconosco una grande, mastodontica, infinita onestà intellettuale, non per questo smetto di cercare di decifrarne il percorso o il messaggio (che a volte, lo ammetto, nel recente passato un po’ mi è sfuggito).

Dopo San Siro ci ho riflettuto in lungo e in largo, e la miglior risposta a diverse delle mie perplessità di oggi è insita proprio in quella frase di Dan Zanes riportata in apertura, o meglio, nel suo ribaltamento a tantissimi anni di distanza. E qui mi viene di provare anche a dare una risposta al quesito di Andrea Boido quando nel suo ottimo post (as usual) dice: “San Siro è stato un concerto strano, forse il più strano cui abbia mai assistito. A dire il vero sono anche in dubbio se considerarlo un concerto o meno, solo che non so bene in quale altra categoria infilarlo”.

Anche per me San Siro è stato il più strano in assoluto, e contrariamente ad Andrea non ho proprio alcun dubbio nel dire che non si è trattato di un concerto: lo rubricherei invece senza la minima esitazione alla voce “grande esorcismo collettivo”. Occorre aggiungere però un altro tassello per completare il quadro, e lo fornisce l’osservazione di Marco Gioanola quando dice che la longevità di Springsteen rischia di fuorviarci, di farci perdere un po’ la prospettiva. Pensateci bene, e mi rivolgo soprattutto a quelli, come me, un po’ passatelli: come vi sembrava un sessantenne quando eravate adolescenti? Un matusa lontano anni luce, se andava bene. Qui invece abbiamo di fronte uno che continua a far piangere quindicenni che cantano con lui le sue canzoni, che da anni, decenni, continua a riempire stadi worldwide costituendo un fenomeno multigenerazionale che non ha eguali dacché il Rock’n’Roll ha pianto il suo primo vagito, ma non ne ha probabilmente anche al di fuori dei confini del semplice ambito musicale. E su questo è necessariamente doveroso interrogarsi. Quello che sconvolge poi è la naturalezza disarmante con cui è arrivato sin qui, scongiurando ogni parvenza di tronfiaggine da pseudo-tycoon-finto-giovane, che pure era un rischio pericolosamente dietro l’angolo, ma l’ha sfangata alla grande.

Ammettiamolo, siamo in presenza di un alieno, un highlander che ha sfidato, vincendo, le leggi della natura, scardinando definitivamente la primitiva convinzioneche il Rock fosse solo un fenomeno adolescenziale (o, all’opposto, da vecchie cariatidi fatiscenti) facendolo crescere con lui (e con lui il suo pubblico) e diventandone l’unico credibile portatore di universalità del messaggio, della promessa originale, di quelle speranze. Potranno essere cambiati i tempi o la forma, talvolta pure la sostanza, ma questa è la vera cosa che Bruce Springsteen non ha mai smesso di fare, la battaglia che ha sempre combattuto.
E capiamo anche questo: è dura, fottutamente dura, continuare ad essere Bruce Springsteen, ad essere sempre all’altezza della situazione.

Dopo il tour del 2009 dissi che c’era ancora sudore ma ormai mancava del tutto la “sporcizia”; Andrea diceva che Bruce con la E Street Band non è più una cosa “seria”, argomentandocome sa fare le sue affermazioni. E in buona parte continuo a credere che sia effettivamente così. Non è che la mia sia un’improvvisa conversione sulla via di Damasco, intendiamoci, ma con tutta l’onestà possibile la domanda da farsi è: è lecito attendersi o pretendere ancora “quel” tipo di “serietà” o “seriosità”, rigore, sporcizia da un live di Bruce Springsteen & the E Street Band (o quel che ne rimane) nell’anno di grazia 2013? Cosa può fare quest’uomo, oggi, per mantenere fede alla propria promessa quando sale su un palco?

Forse proprio chiamarci di nuovo a ballare, stanarci dalla nostra quotidianità, accendere le luci e fare festa, esorcizzando insieme a noi, come ha fatto a San Siro, il tempo che passa, il vuoto lasciato dalle persone che non ci sono più, forse anche il suo bisogno di alimentarsi davvero del contatto (fisico e fin troppo ostentato) con la sua gente, ma soprattutto, secondo me, l’idea che non si possa trovare, mai come oggi, fosse anche per tre ore e mezza di “solo” divertimento, un qualcosa che assomigli a un “senso di comunità”. E non sto affatto parlando della “comunità springsteeniana”, di quella cosa “che noi lo seguiamo sempre ovunque e io ho visto un tot di concerti e sono figo e bla bla bla”. No, proprio no, tutta un’altra faccenda. Ecco, se ci penso bene mi pare che sia questa la cosa che ci sta dando e di cui non sappiamo di avere bisogno. Faccio fatica a spiegarlo con parole migliori e sicuramente non sto esprimendo il concetto con la profondità che vorrei, ma trovo che in quest’epoca del cazzo da “clicca su ti piace” ci sia qualcosa di enormemente e miracolosamente umano in quello che ancora Springsteen riesce a fare. Sicuramente aiutandosi a volte con un po’ di mestiere, ma sempre con la luce negli occhi di chi si sorprende perché si rende conto che sta facendo qualcosa che ha un senso molto più grande di quanto lui stesso riesca a spiegarsi. La luce propria dell’innocenza, forse. A sessantatre anni Bruce Springsteen l’innocenza la ritrova ogni volta che sale la scala che lo porta sul palcoscenico, e Dio solo sa quanto lo invidio per questo.

Certo, nei concerti di oggi non c’è un solo Springsteen. C’è quello che fa il pagliaccio, che pesca i cartelli (qualcuno ardito e qualche altro più furbescamente “piace vincere facile” ) o ti ricanta fino alla nausea Sunny Day tirando su bimbi di una tal spocchiosaggine che starebbero sui maroni perfino al Mago Zurlì; ma c’è anche quello che ti spara dritto filato nello stomaco tutto Born to Run con la band ridotta all’osso, con una cifra stilistica e una cattiveria che manco stesse pestando le assi del Bottom Line, lasciandoti lì a navigare con la fantasia e facendoti intravvedere di cosa fosse capace quel barbuto secco secco con la canottiera bucata. Ho citato due estremi, ma è ovvio che in mezzo c’è molto altro. Ci sono tantissime delle sfaccettature dell’Arte di Springsteen, giusto per tornare al discorso arte/artista, che possono piacere o meno e toccare in misura diversa le corde della nostra sensibilità. Ma se ci fidiamo dell’artista, dell’uomo, credo che lui sia sempre lì al suo posto a fare il suo, nel modo in cui gli viene di farlo oggi, e poco male se nello spazio di uno show ci sono momenti in cui mi ribalta come un calzino e altri in cui mi diverto di più a vedere come si divertono gli altri. Ci sta, pertanto, che ci sia chi esce camminando sollevato da terra, chi critico e perplesso, chi con il magone sullo stomaco perché ha la sensazione che qualcosa sia finito.

Tutto bene dunque? Ma neanche per idea. A cominciare dalla banda: diciassette elementi sono abbastanza inutili, quando non dannosi, però parlare degli innesti di contorno lascia il tempo che trova. Quelli che mi preoccupano sono i vecchi pards. A Milano ci sono state un paio di inquadrature in sequenza particolarmente impietose di Nils Lofgren e Garry Tallent mentre facevano i cori su Twist & Shout: si vedeva lontano un miglio che avevano lo stesso trasporto emotivo che potrei avere io se costretto a cantare i Ricchi e Poveri al karaoke. Roy Bittan sembra uno che gli mettono l’interruttore su on appena si siede sullo sgabello, e sta lì a testa bassa durante tutto il concerto finché alla fine non passa qualcuno a spegnerlo. Steve…vabbé. In termini economici penso che le sue “pennate” hanno il costo unitario più alto mai registrato nei concerti rock di tutti i tempi. Max continua a martellare come John Henry con l’aggravante di non dover mai perdere di vista il tarantolato mentre fa jogging, ma ogni tanto ho la sensazione che proprio come a John Henry gli stia per scoppiare il cuore, e a quei ritmi qualche sbavatura è più che giustificabile. In ogni caso è quello che se la guadagna ancora dall’inizio alla fine. Ho letto qualcuno che diceva che ci si può aspettare solo professionalità. Quella non è in discussione, mi pare. Però, suvvia, forse la professionalità ce la potevamo aspettare dai “ragazzi del `92” (yes, quelli scelti insieme allo scienziatone Landau, uno che magari una volta ci capiva qualcosa ma che da un sacco di tempo a questa parte ho come l’impressione che abbia fatto più danni della grandine), ma da loro mi piacerebbe vedere ancora un po’ di anima. Attenzione, non ho detto “pretenderei”, ho detto mi piacerebbe, che è tutto un altro film. Cioè, li posso capire, sul serio. Sono esseri umani, che magari a questo punto della loro vita, chi può dirlo, invece che andare in giro per il mondo a suonare ancora Hungry Heart starebbero volentieri ai giardinetti coi nipotini. E’ quell’altro che non è normale, non è colpa loro. Mi immagino la scena: Roy, c’è di nuovo quel rompicoglioni al telefono, non avrai per caso intenzione di dargli ancora retta, vero??? Che faccio, dico che non ci sei?

Volendo pensare male si potrebbe anche dire che si sta spremendo il limone fino a che c’è qualche goccia di succo o, per dirla con un linguaggio più tecnico, si sfrutta tutto il ciclo di vita di un prodotto. Ma poi pensare male di cosa? Pezzi di ricambio e cuori infranti fanno girare il mondo, ma business is business e pensare che i dollari per la holding Springsteen non abbiano importanza sarebbe da ingenui (cosa che non sono senz’altro l’ex giornalista-produttore di cui sopra o quella simpaticona della signora Carr). Ma ripeto, non mi scandalizza per niente, a maggior ragione perché riconosco a Bruce di aver sempre camminato con estrema dignità sull’insidiosissimo filo di lana dell’ossimoro (apparente) milionario/cantore dei deboli.

E’ l’ovvietà delle ovvietà, ma si sa che la ragione sociale E Street Band sommata al nome Bruce Springsteen ha un effetto moltiplicatore esponenziale nel richiamo delle folle, sempre di più che qualsiasi Bruce Springsteen & the XX band, nemmeno se ci suonassero Kenny Aronoff e Mike Campbell (beh, forse in quel caso si, al secondo giro, non appena si sparge la voce di quello che combinano).

Questi ex-ragazzi ci hanno dato tanto e avranno la nostra riconoscenza e gratitudine per l’eternità, ma temo che a un ennesimo giro con questa impostazione al posto di una band ci ritroveremmo la sua caricatura, e sinceramente me lo vorrei risparmiare. Un ipotetico ultimo valzer futuro, che non sembrerebbe comunque immediato stando ai recenti rumours, potrebbe avere un senso, forse, solo se dichiaratamente autocelebrativo (come lo poteva essere ad esempio un tour dopo la pubblicazione di The Promise), ma per carità, basta dischi paraculescamente attributi alla E Street come Magic o WOAD (altra scena: Garry, tesoro, hanno chiamato dal management del tuo amicone, dicono che devi passare domani pomeriggio a registrare, se ho capito bene, due tracce. Dicono anche di ricordati l’IBAN che poi fanno il bonifico). Finissero qui, oggi, sarebbero in tempo utile per una uscita di scena da standing ovation; più avanti non ci scommetterei.

Scalette: ci si può girare intorno in mille modi diversi, anch’io sono spesso caduto nel tranello, ma stiamo sempre distogliendo il fatto dall’unica, vera, cruda verità: le canzoni degli ultimi tre dischi, non dico memorabili, ma almeno degne di essere ricordate, stanno tranquillamente sulle dita di una mano e sicuro che te ne avanza almeno uno per scaccolarti. Hai voglia a farle legare col resto del repertorio o trovare nuovi significati ai pezzi storici. Ricordate le canzoni di The Rising nel relativo tour? Ricordate Worlds Apart o Countin’ on a Miracle? Dite che spaccavano? Ecco, appunto.

Rigore: ho provato a pensare in cosa dovrebbe tradursi il Rigore che si potrebbe chiedere a Bruce per il prosieguo della sua carriera. Butto lì qualche idea, consapevole di stare al Bar Sport. Tanto per cominciare, leggo di un nuovo disco in stile Seeger Session. Non male, ma è la parola “stile” che mi inquieta, perché il mio diavoletto interiore mi suggerisce l’equazione nuovo disco sta a Seeger Session come Devils&Dust sta a The Ghost of Tom Joad, e la mia mano si avvia repentinamente verso una toccatina scaramantica. Ma speriamo che abbiano capito male a Greasy Lake.

Bruce di energia ne ha ancora da vendere e credo che il tempo dei suoi American Recordings sia ancora molto lontano, anche se il terreno cantautorale (preferibilmente spoglio, molto spoglio) è ad oggi quello dove lo vedo maggiormente in grado di poter dare ancora zampate da leone. Quello per cui sbrodolerei di brutto-brutto sarebbe invece un inaspettato guizzo rock, che però non potrebbe più avere né con questa E Street né chiamando un po’ di gente a cazzo come per Wrecking Ball (tipo il simpatico Morello, poverino, un duro e puro abituato alle asperità delle battles of L.A. illuminato in età adulta da Woody Guthrie – ma non è mai troppo tardi, come diceva Alberto Manzi – che in quel disco ci infila un paio di assolo di un melenso che nemmeno Beppe Maniglia). No, la scintilla, il sacro fuoco lo può trovare solo facendo un gesto coraggioso davvero, contornandosi di gente “affamata”, ma che prima di tutto c’azzecchi qualcosa. Vi dice nulla l’accoppiata Neil Young/Pearl Jam? C’è gente in giro che suppongo che pur di suonare con Springsteen andrebbe in tour con canadese e sacco a pelo portandosi i panini da casa. Immaginate svegliarsi una mattina e leggere che Bruce sta incidendo, che ne so, coi Gaslight Anthem, gli Hold Steady o i Social Distortion. Si beh, sono un romantico, lo so.

Ora però smetto, perché tanto dopo tutte `ste discussioni ho fatto come il Tognazzi di Amici Miei, che ogni volta si lasciava ferocemente con l’amante, per poi darsi di nuovo appuntamento per un altro incontro clandestino. Lo confesso, mi sono appena fumato quasi un millino tra aerei, biglietti in extremis e alberghi. Paris, we’re coming. Mi era rimasta la voglia di scalette scacciapensieri, e che non si sognasse di finire con un’altra Thunder Road così.

Wrecking Ball Tour

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