(Not so) Hard Rock Calling

di Andrea Sartorati.

ANDREA’S BACK (IN TOWN): sembra ieri che eravamo ancora a Londra… invece son già passati 15 giorni dalla nostra ultima visita in città. Troppo pochi? Una follia, logistica e economica, tornarci in così poco tempo? Probabilmente sì, eppure questa città non si finisce mai di scoprirla e di amarla. certo, le prime volte è quasi inevitabile pagare dazio ai sancta sanctorum del turismo più stereotipato, ma basta poco per scoprire che Portobello è frequentata ormai quasi solo da italiani e spagnoli (il fatto che una Jo Squillo in passeggiata venga riconosciuta da tutti è un indizio di per sè inquietante) e che le bancarelle di Camden Town hanno la stessa cianfrusaglia dei peruviani alla festa dell’unità. è vero che ristoranti e negozi di vestiti sono ormai uguali identici in tutto il mondo, eppure già Covent Garden ha un fascino tutto suo. ma poi basta spostarsi a Bricklane e Spitalfields per credere di aver scoperto un mondo nuovo. Poi arriva l’amico che ha la fortuna di vivere lì e ci rimprovera di non esser mai stati a Burough Market. Insomma, c’è sempre qualcosa di nuovo ed è una città in costante evoluzione. quartieri prima mai sentiti sono oggi in espansione, pronti a diventare nuovi centri di aggregazione e di tendenza.
Perché – segnatevelo sul vostro quaderno di appunti e di citazioni buone da riciclare nelle occasioni che contano (noi da una vita viviamo di pensieri altrui e qualcuno ci crede addirittura interessanti) – Tokyo, Dubai, Mosca, Hong Kong, Mumbai e Pechino possono crescere quanto vogliono e avere parametri economici e di crescita anche migliori, ma il ritmo del mondo lo decideranno sempre New York e London.

UNA VOLTA QUI ERA TUTTA CAMPAGNA: prendete Stratford, il quartiere olimpico. Venti anni fa era una palude. In senso letterale, con le sterpaglie e le canne di bambù. Al computer facevano vedere le simulazioni – le stesse che vediamo da una vita nei marchettoni dei telegiornali ad ogni salone dell’auto di Ginevra sull’imminente avvento delle auto a energia solare – con gli impianti sportivi e il futuro quartiere residenziale e commerciale. Roba che a noi italiani veniva da ridere, scottati come eravamo dall’esperienza di Italia ’90 (per inciso l’unico mondiale con gli stadi vuoti, nel paese in cui si parla solo di calcio…) e delle sue cattedrali nel deserto ancora in costruzione il giorno prima dell’inaugurazione, con qualche operaio distrattamente finito per la fretta cementato dentro i piloni. oggi il quartiere è finito (definirlo bello sarebbe esagerato), le case sono in consegna e probabilmente si riveleranno pure un ottimo investimento immobiliare. non ci sono più le zanzare e questi sudditi, maledetti loro, hanno fatto tutto senza nemmeno bisogno del mascellone.

THE PRICE YOU PAY: a questo giro dovevamo andare a visitare The Shard, il pennone creato da Renzo Piano e che ci dicono essere il grattacielo più alto d’Europa. Li mortacci de Pippo, trenta sterline solo per salire in ascensore e godere di una – crediamo suggestiva – vista panoramica di Londra. L’architettura e tutte le altre espressioni di arte moderna possono piacere o meno (a noi piacciono molto), ma stiamo sempre parlando di un pilone di acciaio e vetro e di una quarantina di eurocucuzze. Molti dei nostri amici venuti a Padova per il concerto di Springsteen hanno giustamente approfittato dell’occasione per dare alla trasferta una parvenza culturale e visitare la Cappella degli Scrovegni. Affreschi di Giotto, mica di uno di quei pittori (tipo Federicuccio di Salcazzo) che conosce solo Bartezzaghi e gli tornano utili per incastrare la definizione del 16 orizzontale. Hanno tutti pagato il biglietto ridotto (tessera Arci, Ikea, del dopolavoro ferroviario o club delle giovani marmotte: e figurarsi se qualcuno si è preso la briga di verificarne le credenziali) a 4 euro. E’ vero a Londra i musei sono spesso addirittura gratuiti, ma è radicato il sistema delle donazioni annuali e qualsiasi extra si paga salato. Il problema da noi è che gli Scrovegni costano esattamente come il museo di Tazio Nuvolari a Mantova o quello dei centrini ricamati dalle vecchine in montagna. tocca dar ragione a sgarbi: se le miniere della ruhr tedesca hanno più turisti dei nostri monumenti rinascimentali significa davvero che non meritiamo il tesoro artistico su cui siamo seduti. Machecefrega,
macheceimporta: inculiamo l’americano con la frittura surgelata di pesce in piazza san marco a 80 euro.

FESTIVAL: all’annuncio non eravamo entusiasti dell’ennesima partecipazione del nostro all’Hard Rock Calling Festival, in primis perché la ripetitività degli eventi (ormai la sorpresa è relativa quanto la presenza di Bolso Rossi al fu Heineken) toglie inevitabilmente magia agli stessi. noi lo sosteniamo pure per le esibizioni a San Siro o all’arena di Verona, location di un certo fascino – sportivo o storico che sia – ma ormai concesse a chiunque, pure a certi tristissimi comici di Zelig che faticano addirittura a far partire le risate preregistrate. Inoltre, pur con tutto il nostro amore per la legalità, il black-out sonoro del finale dello scorso anno è stato un’oggettiva porcata sotto tutti i punti di vista. poi però gli sponsor sempre sponsor sono e ricordiamo ancora i furiosi tweet riparatori di Little Steven a poche ore dal fattaccio affinché nessuno pensasse mai che si volessero criticare i munifici organizzatori dell’happening musicale nonché proprietari di quei localacci di paccottiglia musicale made in china. che poi chi diavolo avrà mai staccato quella spina, dato che polizia e autorità hanno sempre negato qualsiasi coinvolgimento? in realtà la nostra intima speranza era che, dati gli episodi 2012, l’esibizione 2013 sarebbe stata in qualche modo una sorta di risarcimento con mega ospiti a sorpresa e chissà cos’altro. il nostro sogno era il duetto non tanto con il baronetto McCartney, ma con Mike Jagger. Come noto la fatina non ha realizzato il nostro desiderio (diciamo che la presenza sul palco nei bis di Zac Brown non è stata proprio la stessa cosa): per questo ci tocca tornare a Londra sabato prossimo…

DOUBLE SHOT: alla quarta (e ultima) personale tappa del tour 2013 siamo incappati nel doppione. Ma sì, dai, era quasi inevitabile e solo la variante no album ci avrebbe consentito di calare il poker di esibizioni differenti. “Born in theUSA” poi è la scelta più adatta al clima festivaliero: lo dimostra l’esultanza del pubblico all’annuncio e in occasione dei brani più noti. Non siamo dei fanatici dei dibattiti da scaletta (pure al cineforum scappiamo appena terminati i titoli di coda per non incappare in quei saccenti che parlano come se fossero Martin Scorsese mentre non hanno mai girato nemmeno i filmini delle vacanze) e ci limitiamo a registrare le nostre impressioni: concerto oggettivamente sottotono. Se pure un sito come Backstreets, ormai diventato una sorta di bollettino ufficiale della casa madre, nella recensione della serata evidenzia luci e ombre, allora siamo in presenza di una situazione analoga al Tg4 che in caso di sconfitta elettorale alle amministrative parla della significativa conquista da parte del Pdl del municipio di Casalmaggiore sul Po o di “Forza Milan” che della batosta per 1-6 contro la Juve esaltava la bella azione che ha portato al gol della bandiera di Marco Simone. La voce di Bruce sin dall’inizio ha avuto qualche tentennamento e qui si è visto il fuoriclasse che ha lasciato spazio a parti strumentali e parlate un po’ più lunghe del solito. finezze da smaliziati, ma sempre finezze. questo ci ha permesso di apprezzare un’esibizione di ottimo livello (forse anche più che a Milano), dove il solo Van Zandt ci è parso al solito troppo distratto e molto più a suo agio nelle parti da attore – fra l’altro non male Lilyhammer – che in quelle musicali. Col tempo, altro evidente segno di un’eccezionale capacità del nostro di gestire gli eventi, anche la voce si è scaldata, ma lo show non è proprio decollato. la scelta delle chicche un po’ a cazzo conferma l’assoluta mancanza di filo logico delle ultime date del tour che nominalmente si richiama ancora all’ultimo disco in studio: a questo punto è più onesto Elvis Costello che nello spettacolo attualmente in cartellone ha fisse solo prima e ultima canzone della scaletta e le altre sono decise girando una ruota simile a quella della fortuna. Alla fine nella memoria rimarrà essenzialmente il balletto con mamma Adele e la schitarrata con Sister Pat: come dire che di una festa di compleanno ci è piaciuto tantissimo il colore delle porte dell’appartamento.

COSA CI PIACE DI UN FESTIVAL UK: oltre all’organizzazione impeccabile (ma qui rischieremmo di annoiare con la ripetizione dei nostri evergreen sull’efficienza albionica), l’eterogeneità del pubblico e il fatto che una buona percentuale sia lì per passare una giornata e non per questo o quell’artista. Siamo invecchiati talmente presto (come il nostro amico charlie brown eravamo già vecchi da bambini) che troviamo da anni odiosa qualsiasi forma di militanza, per cui ci troviamo estremamente a nostro agio in queste situazioni. queste famigliole britanniche dicono “springsteen, ma chi, quello con la bandana? ehi daddy, sono curioso, dai, andiamo a sentirlo, ti prego” e partono per una giornata al parco. Mangiano, giocano ai videogiochi, vanno sulle giostre (sì, c’erano davvero pure quelle), comprano la t-shirt celebrativa e addirittura pisciano quando ne sentono il bisogno, senza l’ansia di perdere qualche metro dal palco. Con indubbio vantaggio tattico di noi latini che recuperiamo posizioni su posizioni, come un secondo pilota Ferrari alla partenza (mai capito perché l’odiosa scuderia di Maranello debba avere di default sempre seconde guide scarse). Con i pregi e i difetti del caso, lì essenzialmente si assiste ad un evento, da noi si partecipa. sarà per questo che ci pare di notare sempre una percentuale di connazionali inferiore a quella di altre piazze. Con i nostri occhi abbiamo visto vecchiette col bastone, coppie interessate più a limonare sotto una rara giornata di sole, bambini col pallone, sosia di Milhouse – degli sfigatoni, in pratica – al loro primo happening rock, ciccione seminude, sessantenni con vestiti e cappelli stile regina ad un matrimonio della casa reale, capelli di tutti i colori e tatuaggi nei posti più improbabili. il bello di Londra è che tutto questo passa con naturalezza, tanto che ben presto ci si accorge di quanto si è provinciali a dar di gomito alla visione di ogni strambo personaggio. le grandi città hanno pure questo vantaggio: permettono a tutti di costruirsi un’identità, di non esser giudicati, al limite anche di nascondere la propria solitudine in un’eccentricità talmente eccentrica da risultare indifferente.

COSA NON CI PIACE DI UN FESTIVAL UK: non abbiamo mai capito la storia dei palchi separati. a parte gli amici o i malati, chi diavolo si piazza davanti ad un palco secondario – fra l’altro situato da tutt’altra parte – negli stessi orari in cui iniziano i set principali dall’altra parte? Non comprendiamo quindi la fortuna e l’attrattiva commerciale di un’offerta così vasta. Non possiamo quindi dirvi nulla dell’attesissima esibizione dei Negramaro, alfieri dell’orgoglio nazionale al parco della regina e piazzati su uno stage diverso da quello di Bruce. Di un festival nel Regno Unito non ci piacciono poi i prezzi folli del cibo (sette sterline per dei noodles stracotti su una scatola di cartone) e il chiaccheiriccio continuo dei vicini, per quanto il totale disinteresse e il rumore di fondo sulla finale “My lucky day” sarebbe quasi da considerare un favore e non una mancanza di rispetto verso i pochi spettatori attenti. Poi, inutile nascondere la testa sotto la sabbia, all’albionico piace parecchio alzare il gomito (il tizio che passava col cartone da otto non lo faceva certo per gli amici: era la sua modica quantità per uso strettamente personale) e la sua ubriachezza non è allegra come potrebbe essere quella irlandese, ma alquanto fastidiosa e talvolta pericolosa.

MERCHANDISING: non siamo ai livelli dei Rolling Stones (andate a vedere il capolavoro della maglietta in stile Celtics per la data di Boston dei vecchiacci), ma almeno ha fatto la comparsa una t-shirt specifica e celebrativa delle due date londinesi. Meglio di niente e soprattutto preferibile a quelle tarocche con gli errori di ortografia e le silhouette di altri artisti in vendita alle nostre uscite.

HARD TIMES: da mesi pensiamo che questa comparsata all’Hard Rock Calling sia stata una sorta di reciproco risarcimento per i fattacci dell’anno scorso: voi non ci criticate più di tanto, noi vi procuriamo un altro lauto ingaggio. Sarà per questo che non c’è stato nemmeno un riferimento, neppure lieve e ironico, a quanto accaduto dodici mesi orsono? Tutto il festival ci è sembrato comunque viaggiare su standard inferiori alle precedenti edizioni: principalmente per durata (due giornate anziché tre) e cartellone, ma anche in quanto ad allestimento dei vari stand e del contorno coreografico (ma i fuochi d’artificio?). Certo nel giudizio complessivo incide anche una location decisamente meno suggestiva di Hyde Park: conterà nulla, ma fra avere un contorno di alberi e uno di palazzoni in costruzioni c’è la sua bella differenza. Però la silhouette del velodromo sullo sfondo al tramonto è stata in ogni caso un bel vedere.

WAITIN’ ON A SUNNY DAY: avevamo già pronto il paragrafone sulla pioggia inglese, sul cielo grigio e le altre menate sul clima pazzerello e invece siamo stati sorpresi da un week-end quasi di fuoco. Memori di altre esperienze fangose nei parchi, eravamo attrezzati con scarpacce da cestinare al rientro, plaid da picnic e biscottoni al burro di arachidi per riempirci di grassi polinsaturi come i cacciatori di balene norvegesi quando sopraggiunge il grande gelo. Ma la vera delusione non è venuta tanto dal meteo, quanto dal tanto celebrato prato all’inglese. Il parco della regina è sì di un verde brillantissimo ma grazie all’erba sintetica (comunque ottima per appisolarsi durante le altre esibizioni) che ricopriva tutta la vasta area del concerto.

WIMBLEDON: per dire dell’offerta cittadina segnaliamo che in contemporanea a Wembley suonava robbie Williams, ma il cuore della città era indubbiamente indirizzato a sud, verso quello strambo e esclusivo circolo in cui ci si veste solo di bianco. Pur senza investitura ufficiale, esistono delle manifestazioni che, per tradizione e qualità (non necessariamente dei partecipanti), sono dei veri e propri campionati mondiali: l’NBA per il basket, il Tour de France per il ciclismo e l’erba verde di Wimbledon per il tennis e, ovvio, il festival di Sanremo per le nuove tendenze musicali. Ci è bastato passare in macchina vicino al centrale (proprio mentre la tedesca Lisicki eliminava Serena Williams) e passeggiare cinque minuti a piedi nel quartiere per capire la magia di questa esperienza tipicamente londinese. Dal fatto che anche un tempio della globalizzazione come McDonald’s (non solo quindi, com’è naturale che sia, l’estetista o il pub di quartiere con palline da tennis ovunque) allestisca la vetrina con dei palloncini a formare una gigantesca racchetta, abbiamo capito che certe anacronistiche tradizioni – tipo la richiesta di biglietti da inviare in forma rigorosamente scritta e solo per posta tradizionale, pena l’esclusione dal sorteggione – hanno ancora un senso. Ci è stato pure consegnato un libricino di una quarantina di pagine con le regole da tenere in coda, rigorosamente ispirate alla fairness che deve animare la distribuzione dei preziosi tagliandi fra le centinaia di migliaia di richiedenti. gente ogni volta nuova e da ogni dove: proprio come certi pit…

57 CHANNELS AND NOTHIN’ ON: la tv in stanza non è un piacere assoluto come la colazione in albergo (mischiare il cappuccino con la spremuta d’arancio e alzarsi venti volte con aria furtiva verso il vassoio delle brioches sono i nostri godimenti maggiori in vacanza, anche più del non pensare al lavoro per 24 ore), ma la BBC di sicuro sì. Segnaliamo che il servizio pubblico britannico trasmetteva nei giorni della nostra permanenza e con una copertura spaventosa il torneo di Wimbledon, il festival di Glastonbury e il gran premio di Formula Uno di Silverstone. Per copertura totale intendiamo che, saltellando semplicemente da un canale all’altro, si poteva scegliere quale campo di tennis e/o quale palco seguire integralmente. Senza contare che i due canali normali e quello di news proseguivano la loro programmazione ordinaria, che tanto schifosa non è. Certo che “La prova del cuoco” e telecronisti intriganti come Dossena loro se li scordano, per non dire di produzioni internazionali come Don Matteo (“Don Matthew” per chi l’ha vista sottotitolata, anche se la recitazione di Terence Hill ne risentiva un po’).

 

Wrecking Ball Tour

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