di Mauro Buti.
E’ la sera del primo di luglio 2000. Il Reunion Tour è giunto alla sua serata conclusiva e il pubblico, scaldato dalle note di “E Street Shuffle” sta riprendendo fiato in attesa della prossima canzone. Le note di un accordo in minore si spargono all’interno di un Madison Square Garden insolitamente silenzioso e sembrano invadere lentamente l’intero edificio.
Sono passati più di vent’anni dall’ultima esecuzione eppure la magia è tale che il tempo sembra perdere di significato, e il meraviglioso momento si dilata quasi come se non volesse decidersi a passare. Poi Bruce inizia a cantare, e nulla è più come prima. Mosse da una forza misteriosa le lancette iniziano a muoversi all’indietro mentre gli astanti corrono con la memoria alle registrazioni gracchianti della voce di un giovanissimo Springsteen che, con chissà quali sogni in testa, urla in un microfono che siamo nelle sabbie mobili e non semplicemente nel fango.
E lo siamo davvero, perché nessuno riesce a liberarsi e, prigionieri di uno splendido incantesimo, ci siamo ancora una volta persi nel diluvio.
Ma dov’è il diluvio? Quando è cominciato? Chi si è perso? Perché?
Lost in the flood, come molte delle prime composizioni di Springsteen, tradisce in maniera evidente l’educazione cristiana ricevuta da Bruce. Nella tradizione biblica il diluvio, e la pioggia in generale, hanno un’ampia connotazione simbolica e assumono svariati significati che possono essere banalmente riassunti nel concetto di purificazione. E il diluvio di Springsteen? E’ anche quello un diluvio catartico, oppure si tratta di altro? Anche ad una lettura superficiale si può notare che le idee di Bruce sono abbastanza diverse. E mentre la purificazione la si ritrova solo ad un livello di lettura più profondo, quasi inconscio, viene immediato leggere il testo come un’amara presa di coscienza, una domanda destinata a non avere risposta, carica di disillusione e di sconforto.
Ma chi è che se la pone? Chi è che parla? E, ancora più importante, chi è che guarda? Il narratore è interno ma non si riesce a discernere con facilità se sia un diretto partecipante alla situazione o, piuttosto, veda la realtà con gli occhi dei protagonisti.
Particolarmente interessante, a livello di analisi, è identificare l’ottica di osservazione come quella del “ragamuffin gunner”, il soldato straccione che sta tornando a casa e attraversa una città che stenta a riconoscere come sua e mai come ora gli è apparsa aliena ed estranea. Già da notare che in un paese come gli Stati Uniti, fortemente nazionalista e legato al valore della patria, sminuire la figura di un soldato, potenzialmente eroica e positiva, paragonandola a quella di un comune straccione di strada riesca a rendere l’immagine ancora più carica di significato. Da dove venga il soldato, quali siano gli orrori o i combattimenti che ha dovuto affrontare, non ci è dato di sapere. Eppure l’impressione che le vicende inizino in “medias res”, è fortemente errata: il testo comincia nell’unico punto possibile. Comincia mostrando un soldato che si sente perso proprio quando riesce a tornare a casa, o, meglio, semplicemente per il fatto di essere tornato. Il che è contemporaneamente un’immagine eccezionale e terribile. Il diluvio, la strada smarrita, non sono associati ai combattimenti, alla paura, o alla lontananza, quanto allo scoprire che quello che si desiderava, quel ritorno tanto sognato, è pura illusione. Perché la casa è diversa da quella che si sognava e, probabilmente, a questo punto non esiste nemmeno più. E il soldato, solo in un ambiente surreale che non riesce a riconoscere, si incammina per intraprendere un viaggio interminabile al quale non può sottrarsi in alcun modo, destinato a cambiarlo profondamente (forse anche a purificarlo?). Ma, nonostante tutto, ha almeno il privilegio di essere muto testimone dell’orrore, delle meraviglie (perché anche queste, si possono trovare nel diluvio), e della profonda umanità che pervadono la situazione. In effetti il soldato è la figura che meglio di ogni altra riesce ad identificare quella che potrebbe essere la maniera di guardare del narratore.
In ogni caso, qualunque sia la voce che urla le sue domande verso il cielo, non cambia la situazione dei “poor cats” che, nessuno escluso, sono persi senza via d’uscita e, quel che è peggio (ed è anche questo ad originare l’urlo di rabbia) non sembrano nemmeno rendersene conto, esattamente come tutti coloro che guardano il diluvio dall’esterno, non si rendono nemmeno conto del fatto che sta piovendo. E a nulla vale avvertirli, a nulla vale urlare che è sabbia mobile, è sangue, è orrore quello che ci circonda, se i primi a considerare la situazione normale sono i protagonisti che la vivono. E di fronte ad uno sgomento narratore, diventa bello, divertente, il tonfo del corpo che cade sulla strada, piuttosto che raccapricciante la scena dell’uccisione in sé. Perché proprio quello è il diluvio, e proprio in quello tutti si sono persi (e a riguardo si potrebbero individuare alcune interessanti analogie con gli altri urli di rabbia Springsteeniani, specialmente quelli presenti in Nebraska o, volendo restare più vicini al presente, il recentissimo American Skin. Ma il discorso, purtroppo, esula dall’analisi vera e propria) ed è sempre quello che la canzone tenta di denunciare. Invece, almeno all’interno del diluvio, a nessuno sembra importare se la religione viene dissacrata, se non c’è rispetto per nulla, se non esiste una legge, se la gente muore. Si beve sangue sconsacrato, un vino inebriante che riesce solo ad impedire alla gente di pensare, e ci si dimentica di tutto il resto, illudendoci di non essere circondati dalla rovina.
Non c’è amore, o al massimo lo possiamo identificare con una croce, quella che l’incarnazione di Maria tenta di mettere sulle spalle del protagonista (per venire, come ovvio, rifiutata sdegnosamente). Non c’è speranza, se non quella simbolicamente espressa dai resti del “pure American brother” dopo il suo viaggio nell’uragano: qualche macchia di sangue, e nulla che possa avere un qualche valore (nothin’ left that you could sell). Non c’è più nulla del tutto, eppure il branco dei “cats”, come a bordo di una barca immaginaria, continuano a muoversi senza controllo ma restano lo stesso a galla, lasciando il protagonista a chiedersi se sapessero dove diavolo si stavano dirigendo o se si fossero semplicemente persi per caso, per poi rimanere intrappolati.
Il ragazzo che si illude di poter non crescere, di trovare tutto quello che cerca in una Chevy destinata alla gloria si perde in un uragano e non torna mai più. Con anni e anni di anticipo rispetto a quello che poi si leggerà nei testi successivi, la highway è ben altro che la mistica via dei sogni, e forse qualcosa di ancora peggio che “semplicemente strada”: è il teatro silenzioso e spietato della tragedia, l’oggetto dell’illusione e, forse dell’inganno. Oppure no, dato che il protagonista si chiede cosa diavolo stesse pensando il ragazzo, mentre incontrava la tempesta, e afferma che si è trattato di un addio da “vero uomo di strada”. Ed è ancora una volta una amara forma di ironia, o, piuttosto, un segno di rispetto per l’unica maniera possibile di uscire a testa alta dal diluvio? Il dubbio è lecito ed è destinato a rimanere irrisolto perché, sebbene l’”american brother” sia una figura smaccatamente negativa (dull-eyed and empty-faced) è anche vero che l’highway, almeno in quel punto della carriera Springsteeniana, è raramente trattata in maniera tanto dura. In definitiva interpretare in uno dei due modi significa accettare una certa singolarità, a seconda, o all’interno del tono della canzone, o all’interno della produzione Springsteeniana del periodo.
Poco cambia, in ogni caso, in termini di analisi generale. L’american brother sceglie l’unica via d’uscita e scompare senza chiasso dalla città tormentata dal diluvio. Sapeva quello che stava facendo? Aveva liberamente scelto di non accettare quel destino? Avrà trovato la sua gloria negli ultimi momenti durante i quali si dirigeva deciso verso la tempesta? Davvero si illudeva di poter passare oltre incolume? Si tratta di domande la cui risposta è, come giusto, strettamente personale. Volendo restare coi piedi ancorati per terra opterei per una interpretazione totalmente negativa, cercando altrove, piuttosto, un eventuale sprazzo di luce per salvare i poveri “cats”. Si tratta, come ovvio, di una valutazione soggettiva, ma trovo improbabile il distaccarsi così radicalmente dalle immagini che avevano pervaso la città fino a poche righe prima e preferisco leggere nelle parole della seconda strofa quello stesso sarcasmo amaro che trasudava dalla prima.
Del resto il destino non è certo più clemente con il ragazzo del Bronx che tenta di sfuggire, anche lui inutilmente, dal maledetto diluvio o, meno metaforicamente, da una situazione invivibile. Probabilmente sta tentando di rubare qualche soldo, e un colpo di pistola è l’unico risultato di tutti gli sforzi. Ciò nonostante, ed è significativo anche questo, il ragazzo, malgrado tutto, sta ancora respirando mentre lo portano via e grida qualcosa in spagnolo (il che vuol dire che nessuno lo capisce né lo ascolta, con ogni probabilità). Nel frattempo cinque colpi segnano la fine del miglior apostolo del Bronx, un altro esponente dell’interminabile lista degli sconfitti dal diluvio. E mentre una morte passa inosservata o, peggio, dissacrata, dagli altri “cats”, i poliziotti vanno a prendersi una boccata d’aria senza accorgersi di essere persi esattamente come i poveracci che perseguitano. Il diluvio non fa distinzioni e, insieme ai ”cops”, forse, ha catturato anche quelle figure di passaggio riguardo alle quali poco o nulla si dice (ad esempio le studentesse, o i marinai…).
Di certo, già dalla seconda strofa, l’ascoltatore è diventato prigioniero dell’ipnotico crescendo melodico che caratterizza la canzone. Nuovi strumenti si aggiungono di ritornello in ritornello quasi come se nuove voci si aggiungessero all’urlo di rabbia sgomenta lanciato dal narratore che attraversa la città. E allora perché nessuno si accorge che piove? Perché nessuno si rende conto di quello che lo circonda? Perché non si può nemmeno sperare che smetta di diluviare?
Forse la vera speranza della canzone la si ritrova in conclusione, in due semplici parole che identificano tutti i cats. Quelle che sono state sottolineate poco fa, riferite al ragazzo del Bronx: “Still breathing”. Al di là di tutto, al di là della pioggia opprimente, al di là dell’insensibilità che sembra avvolgere la città come una cappa, i “cats” respirano, vivono e hanno ancora almeno il diritto di sperare. E proprio questa è l’origine dei dubbi del narratore: siamo perduti come esseri umani, oppure è solo il diluvio, la cappa di pioggia che ci ha fatto perdere l’orientamento? Scegliere una risposta invece dell’altra non vuol dire eliminare il problema, ma solo una delle due possibilità lascia ancora spazio ad una occasione di redenzione. E almeno uno dei “cat” non se l’è lasciata sfuggire. “I wonder what he was thinkin’…” mentre cantava quelle stesse cose dopo vent’anni. Ma non ha importanza. Non più. Asciugate le lacrime. Il diluvio non è finito. Non finirà mai. Ma la luce del giorno non è comunque lontana.
Vorrei dedicare questo articolo, e, per quanto possibile, la splendida esecuzione del primo luglio a mia nonna. Credo sia giusto così.